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Antisindacalità: Occorre premettere evidenziando che il punto di partenza comune a tutte le decisioni che si sono dovute occupare del problema dell’antisindacalità della condotta dal datore di lavoro durante le fasi di incontro e di trattative con il sindacato, è la dichiarazione dell’inesistenza, nel nostro ordinamento di un principio generale che vincoli l’imprenditore a trattare e a contrarre con le organizzazioni sindacali dei dipendenti – Cass. 3.3.1990, n. 1667; Cass. S.U. 26.07.1984, n. 4390; per la giurisprudenza di merito, Pret. Napoli 13.12.1992; Pret. Milano 2.06.1192; Pret. Roma 9.10.1191; Pret. Napoli 4.7.1991.

A siffatta conclusione conduce, da una parte, la considerazione congiunta e del principio di autonomia contrattuale, che deve intendersi esercitata sia dal momento della scelta degli interlocutori, e del principio di libertà sindacale, con cui contrasterebbe la previsione legislativa di un obbligo a trattare per la rigorosa delimitazione del soggetto sindacale titolare del diritto che in tal modo si renderebbe necessaria.

Occorre aggiungere che non sussiste neppure una definizione dei soggetti abilitati alla trattativa o delle materie oggetto di contrattazione – Cass. 20 Giugno 1998, n. 6166.

Pertanto, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti hanno sempre negato la possibilità di utilizzare l’art. 28 Stat. Lav. quale strumento di composizione dei conflitti intersindacali.

L’art. 28 Stat. Lav., infatti, non è un terreno di scontro tra le organizzazioni sindacali e il datore di lavoro; non gioca tra di esse un ruolo di arbitro a sua volta valutabile in termini di antisindacalità – altrimenti destinato, in caso di contrasto tra sindacati ad essere sempre antisindacale.

Così, l’esclusione di un sindacato dalle trattative o la stipulazione di un accordo separato con alcune soltanto delle organizzazioni sindacali presenti in azienda, anche se minoritarie, non viene ritenuta di per sé condotta antisindacale.

Allo stesso modo, non può reputarsi antisindacale il rifiuto datoriale di trattare separatamente con alcune r.s.a., in adesione alle richieste di contrattazione congiunta provenienti dalle maggiori organizzazioni sindacali di settore tra cui quelle di appartenenza delle r.s.a. (Cass. 14.2.2004, n. 2857, MGL, 2004,338; App. Firenze 31.3.2001, NGL, 2001,713).

Ancora, secondo prevalente giurisprudenza, il datore di lavoro non è poi obbligato a rispettare un principio di parità di trattamento fra le organizzazioni sindacali – Trib. Roma, 16 febbraio 2004.

Pertanto potrebbe attribuire solo ad alcune un trattamento di maggior favore rispetto a quello dovuto.

La situazione è diversa nel caso sia la legge a prevedere un obbligo a trattare, in tal caso il Giudice potrà utilizzare, ai fini dell’accertamento dell’antisindacalità, il parametro dell’illegittimità della condotta , ma ciò si verifica in ipotesi alquanto circoscritte rispetto alla materia contrattuale tipica; sono ad esempio gli artt. 12 (istituiti di patronato); 26, secondo comma (contributi sindacali); 30 (permessi per dirigenti sindacali); 35, ultimo comma (applicazione dello Statuto alle imprese di navigazione) e l’art. 9 St. Lav. (tutela della salute).

Allo stesso modo nel caso in cui l’obbligo a trattare risulti dalla stessa contrattazione collettiva, la giurisprudenza prevalente dichiara l’antisindacalità del rifiuto di aprire le trattative attuato in violazione di specifiche clausole del contratto collettivo (Cass. 17.1.1997, n. 435; Cass. 13.2.1987, n. 1598, Cass.25.7.1984, n. 4381; Cass.13.7.1983, n. 4850; Trib.Pisa 4.4.2002; Trib. Milano 6.12.2001; Pret. Roma 28.8.1984), giungendo al contempo ad escluderla qualora sia lo stesso contratto collettivo a riservare alle sole organizzazioni sindacali firmatarie la stipula di eventuali contratti integrativi (Pret. Roma 25.10.1985; Pret. Milano 21.5.1986; Pret. Firenze 13.11.1985; Pret. Firenze 14.6.1985; Pret. Roma 7.5.1985; Pret. Milano 27.2.1985).

Occorre evidenziare che non di rado il giudizio muove dall’analisi complessiva «delle ragioni e delle modalità con cui si è espresso il rifiuto del datore», un’analisi che tiene conto, congiuntamente, del «metro della buona fede desunto dalla prassi comune delle relazioni sindacali» (Treu 1974c, 187) e del divieto di cui all’art. 17 st. lav. (Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu 2006, 134).

In altre parole l’esclusione di un sindacato dalle trattative o la stipulazione di un accordo separato con alcune delle organizzazione sindacali presenti in azienda, anche se minoritarie, non viene ritenuta di per se condotta antisindacale, a meno che non si ravvisi e si provi la sussistenza di un intento discriminatorio o la violazione del divieto di costituzione e mantenimento di sindacati di comodo (art. 17 Stat. Lav.) o, naturalmente la violazione di una legge o di un contratto collettivo da cui discendano obblighi specifici in proposito.

Il tutto, dunque, si racchiude nel quadro in premessa secondo cui l’attività di contrattazione è lasciata dallo Statuto alla normale dialettica di fatto.

Pertanto, il contrasto tra interesse del sindacato a diventare interlocutore negoziale e quello del datore a rifiutare le trattative sembra risolversi in modo alquanto lineare, e cioè con un rinvio al piano dei rapporti di forza.


Avvocato Matteo Moscioni, con studio legale in Viterbo, si occupa prevalentemente di Diritto del Lavoro, Sindacale e Relazioni Industriali.

www.avvocatomatteomoscioni.com

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