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L’attore che chieda la restituzione di somme date a mutuo è tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, soprattutto, il titolo da cui derivi l’obbligo restitutorio.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6295 del 13 marzo 2013, pronunciandosi anche sui rapporti tra azione contrattuale ed azione per arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c.

La vicenda de qua traeva origine dalla domanda di restituzione di una somma di danaro, assumendo l’esistenza di un asserito contratto di mutuo inter partes. L’attore, inoltre, proponeva, in via subordinata, domanda ex art. 2041 c.c. al pagamento della medesima somma oggetto della domanda principale. Domande sempre rigettate dalle Corti di merito.

La Cassazione, investita della questione, conferma le decisioni di merito, affermando che è onere dell’attore in restituzione dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, onere questo che si estende alla prova di un titolo giuridico implicante l’obbligo della restituzione, mentre la deduzione di un diverso titolo, ad opera del convenuto, non configurandosi come eccezione in senso sostanziale, non vale ad invertire l’onere della prova. Gli Ermellini, infatti, riconoscono che la datio di una somma di danaro non è sufficiente, di per sè, a fondare la richiesta di restituzione, posto che, una somma di danaro potrebbe ben essere consegnata per varie cause. Di conseguenza, non avendo l’attore ottemperato all’onere di dimostrare l’esistenza del titolo che avrebbe legittimato la pretesa restitutoria, la domanda principale non poteva trovare accoglimento.

In secondo luogo, la Corte si è pronunciata sui rapporti tra azione contrattuale ed azione ex art. 2041 c.c. A tal riguardo, ha richiamato l’orientamento tradizionale, secondo cui l’azione di arricchimento senza giusta causa può essere proposta in via subordinata rispetto all’azione contrattuale proposta in via principale soltanto qualora l’azione tipica dia esito negativo per carenza ab origine dell’azione stessa derivante da un difetto del titolo posto a suo fondamento (Cass. 10 agosto 2007, n. 17647), ma non anche nel caso in cui sia stata proposta domanda ordinaria, fondata su titolo contrattuale, senza offrire prove sufficienti all’accoglimento, oppure quando la domanda ordinaria, dopo essere stata proposta, non sia stata più coltivata dall’interessato (Cass. 2 aprile 2009, n. 8020).

Nel caso in esame, l’attrice aveva proposto una domanda ordinaria, fondata su titolo contrattuale, tuttavia sfornita di prova. Di qui la reiezione della domanda subordinata ex art. 2041 cc.

 * * *

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1441/2010 proposto da:

D.A.R. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GUIDOBALDO DEL MONTE 61, presso lo studio dell’avvocato AMATO GIUSEPPE ROMANO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.U. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TRIONFALE 21, presso lo studio dell’avvocato CASAGNI FEDERICA, rappresentato e difeso dall’avvocato DI SALVO LUCIA giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5177/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 11/12/2008, R.G.N. 4040/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/2013 dal Consigliere Dott. ANNAMARIA AMBROSIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo

Con citazione notificata in data 3 giugno 1999 D.A.R. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Velletri C.U., per sentirlo condannare alla restituzione della somma di L. 62.000000, che assumeva di avergli corrisposto a titolo di mutuo; in subordine, chiedeva – previo accertamento dell’indebito arricchimento del C. – la condanna del medesimo al pagamento della stessa somma di L. 62.000.000 a titolo di indennizzo ex art. 2041 c.c..

Costituitosi in giudizio, il convenuto chiedeva il rigetto della domanda, assumendo che le somme versategli dalla D.A. costituivano il rimborso o l’anticipazione di importi sborsati per svariate esigenze famigliare da esso C., all’epoca convivente con la D.A..

La causa, istruita con prova documentale e con l’interrogatorio formale del C., era decisa con sentenza 19 agosto 2003, con la quale il Tribunale di Velletri rigettava la domanda principale, dichiarava improponibile quella subordinata e condannava l’attrice al pagamento delle spese processuali.

La decisione, gravata da impugnazione della D.A., era confermata dalla Corte di appello di Roma, la quale con sentenza in data 11 dicembre 2008 rigettava l’appello e condannava l’appellante al pagamento delle ulteriori spese.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione D.A. R., svolgendo due motivi.

Ha resistito C.U., depositando controricorso.

Motivi della decisione

1. Il ricorso, avuto riguardo alla data della pronuncia della sentenza impugnata (successiva al 2 marzo 2006 e antecedente al 4 luglio 2009), è soggetto, in forza del combinato disposto di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 27, comma 2 e della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, alla disciplina di cui all’art. 360 c.p.c. e segg., come risultanti per effetto del cit. D.Lgs. n. 40 del 2006.

1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Con il quesito conclusivo ex art. 366 bis c.p.c., si chiede a questa Corte “se la Corte di appello abbia correttamente applicato l’art. 2697 c.c., allorchè ha ritenuto che l’eccezione del convenuto, il quale ha dedotto un titolo diverso della dazione di danaro non configuri una confessione o, comunque, determini l’inversione dell’onere probatorio, allorchè il titolo dedotto implichi un obbligo restitutorio”.

1.2. Il motivo, al limite dell’inammissibilità per l’inadeguatezza del quesito, è, comunque, manifestamente infondato.

Si rammenta che la datio di una somma di danaro non vale, di per sè, a fondare la richiesta di restituzione, allorquando, ammessane la ricezione, l’accipiens non confermi il titolo posto ex adverso alla base della pretesa di restituzione ed, anzi, ne contesti la legittimità, posto che, potendo una somma di danaro essere consegnata per varie cause, la contestazione, ad opera dell’accipiens, della sussistenza di un’obbligazione restitutoria impone all’attore in restituzione di dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, onere questo che si estende alla prova di un titolo giuridico implicante l’obbligo della restituzione, mentre la deduzione di un diverso titolo, ad opera del convenuto, non configurandosi come eccezione in senso sostanziale, non vale ad invertire l’onere della prova. Ne consegue che l’attore che chieda la restituzione di somme date a mutuo è tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, pertanto, non solo l’avvenuta consegna della somma ma anche il titolo da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione (Cass. 22 aprile 2010, n. 9541) In particolare questa S.C. ha precisato che, qualora l’attore fondi la sua domanda su un contratto di mutuo, la contestazione, da parte del preteso mutuatario, circa la causale del versamento, non si tramuta in eccezione in senso sostanziale, sì da invertire l’onere della prova, giacchè negare l’esistenza di un contratto di mutuo non significa eccepirne l’inefficacia o la modificazione o l’estinzione, ma significa negare il titolo posto a base della domanda, ancorchè il convenuto riconosca di aver ricevuto una somma di denaro ed indichi la ragione per la quale tale somma sarebbe stata versata; anche in tale caso, quindi, rimane fermo l’onere probatorio a carico dell’attore, con le relative conseguenze nel caso di mancata dimostrazione dei fatti costitutivi del contratto mutuo (Cass. 9 agosto 1996, n. 7343).

1.3. Questi i principi di diritto applicabili alla fattispecie e correttamente richiamati nella decisione impugnata, si osserva che il quesito di diritto e, prima ancora, il motivo di ricorso poggiano su una premessa assertiva, e cioè, che l’odierno resistente abbia “confessato” l’esistenza di un titolo che comportasse la restituzione della somma pretesa in citazione, che non trova riscontro nella decisione impugnata ed è, anzi, espressamente smentita dalla Corte di appello, laddove ha precisato che “il C. in sede di interrogatorio formale, lungi dal confessare di avere avuto in prestito le somme di cui l’odierna appellante pretende la restituzione, ha riconosciuto soltanto di averle ricevute, durante il periodo di convivenza con la D.A., in rimborso o in vista delle spese straordinarie, da lui solitamente anticipate per esigenze familiari, come acquisto di mobili, vacanze estive ed invernali, prima comunione della figlia della D.A.”.

Ciò posto e precisato che l’apprezzamento dell’efficacia probatoria delle dichiarazioni rese dalla parte in sede di interrogatorio è soggetto al libero apprezzamento del giudice del merito, si osserva che – escluso, nella specie, il carattere confessorio delle riferite dichiarazioni, se non altro perchè non vi è stata conferma da parte dell’interrogando del titolo (mutuo) posto a fondamento della pretesa restitutoria – la doppia decisione conforme ha fatto corretta applicazione del principio actore non probante reus absolvitur, giacchè l’indicazione delle (diverse) circostanze allegate in sede di interrogatorio non esimevano l’attrice dall’onere di fornire la prova dei propri assunti nei termini innanzi precisati, segnatamente in ordine alla causale della consegna della somma di danaro di cui trattasi.

E’ appena il caso di aggiungere che – quand’anche volessero ricondursi le affermazioni del C. al riconoscimento di un contratto di mandato, così come dedotto nel motivo di ricorso – non per questo ne deriverebbe l’accoglimento della pretesa restitutoria;

e ciò per l’assorbente considerazione che l’attrice non ha esercitato l’actio mandati, nè tantomeno ha chiesto il rendiconto delle somme consegnate al (presunto) mandatario per il compimento di atti giuridici, ma ha, piuttosto, pretesto la restituzione di somme date a mutuo. Invero non può essere consentito al giudice, in violazione dell’art. 112 c.p.c., di sostituirsi alla parte attrice nella scelta che avrebbe potuto operare ed accogliere la domanda in base ad un titolo diverso da quello fatto valere in giudizio.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 2042 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) e difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), deducendosi la proponibilità e fondatezza della subordinata domanda di arricchimento. Con il quesito conclusivo ex art. 366 bis c.p.c., si chiede a questa Corte “se la Corte di appello abbia correttamente applicato l’art. 2042 c.c., e abbia correttamente motivato, allorchè ha ritenuto l’azione di arricchimento improponibile sotto il profilo della sussidiarietà, nonchè infondata ai sensi dell’art. 2041 c.c.”.

2.1. Il motivo è, al pari del precedente, manifestamente infondato.

Si rammenta che ai sensi dell’art. 2041 c.c., i presupposti per la proposizione dell’azione generale di arricchimento senza causa vanno ravvisati: a) nell’arricchimento senza causa di un soggetto; b) nell’ingiustificato depauperamento di un altro; c) nel rapporto di causalità diretta ed immediata tra le due situazioni, di modo che lo spostamento risulti determinato da un unico fatto costitutivo; d) nella sussidiarietà dell’azione (art. 2042 c.c.), nel senso che essa può avere ingresso solo allorchè chi la eserciti, secondo una valutazione da compiersi in astratto e perciò prescindendo dalla previsione del suo esito, possa esercitare un’altra azione per farsi indennizzare il pregiudizio subito (cfr. Sez. Unite, 25 novembre 2008, n. 28042). Ne consegue che non può dirsi che la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro sia avvenuta senza giusta causa, quando questa sia invece la conseguenza di un contratto o comunque di un altro rapporto, almeno fino a quando il contratto o l’altro rapporto conservino la propria efficacia obbligatoria (cfr. Sez. Unite, 03 ottobre 2002, n. 14215) Da tale premessa di principio deriva, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, che l’azione di arricchimento senza giusta causa può essere proposta in via subordinata rispetto all’azione contrattuale proposta in via principale soltanto qualora l’azione tipica dia esito negativo per carenza ab origine dell’azione stessa derivante da un difetto del titolo posto a suo fondamento (Cass. 10 agosto 2007, n. 17647), ma non anche nel caso in cui sia stata proposta domanda ordinaria, fondata su titolo contrattuale, senza offrire prove sufficienti all’accoglimento, oppure quando la domanda ordinaria, dopo essere stata proposta, non sia stata più coltivata dall’interessato (Cass. 2 aprile 2009, n. 8020).

Nel caso in esame la ricorrente ha proposto una domanda ordinaria, fondata su titolo contrattuale, senza offrire prova sufficiente all’accoglimento e, pertanto, non poteva trovare ingresso la domanda subordinata di arricchimento.

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo alla stregua dei parametri di cui al D.M. n. 140 del 2012, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 2.700,00 (di cui Euro 2.500,00 per compensi) oltre accessori come per legge.

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