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Il caso. Il proprietario di un appartamento all’ultimo piano può aprire una terrazza, modificando la struttura del tetto soprastante?

La decisione. La Suprema Corte, con la sentenza n. 14107/12, si occupa quindi della compatibilità di tali modifiche con il disposto dell’art. 1102 c.c., il quale prevede, per quanto qui interessa, che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”.

La società proprietaria dell’ultimo piano, infatti, ritiene che le modifiche apportate non comportino alcuna conseguenza dannosa per gli altri condomini.

I Giudici di legittimità partono da un risalente orientamento (Cass. 3199/83; 4466/97; 1737/05), secondo cui la “trasformazione in terrazzo del tetto di copertura di un edificio condominiale ad opera del condomino proprietario del piano adiacente e non sottostante e l’annessione del terrazzo alla sua proprietà esclusiva, mediante creazione di un accesso diretto per uso a lui solo riservato, è illegittima, in quanto tale attività, oltre a non essere riconducibile all’esercizio del diritto di sopraelevazione attribuito al proprietario dell’ultimo piano dello edificio condominiale, realizza, per un verso, alterazione unilaterale della funzione e destinazione, di mera copertura e protezione delle sottostanti strutture, propria del tetto preesistente, e, per altro verso, comporta appropriazione di cosa comune, che integra violazione dei diritti di comproprietà e delle inerenti facoltà di uso e godimento (secondo la sua natura) spettanti agli altri condomini in ordine a parte comune dello edificio (v. anche 4579/81; 3369/91 e 8777/94)”.

Pertanto, secondo questo orientamento, si ritiene che l’eliminazione del tetto dell’edificio trasformato dal proprietario dell’ultimo piano in terrazza ad uso esclusivo è illegittima perchè impedisce agli altri condomini di poterlo utilizzare per quella finalità.

Nel caso de quo, tuttavia, i Giudici di Piazza Cavour partono da un’altra ipotesi, ritenuta legittima, cioè la possibilità

per il condomino di aprire nel muro comune dell’edificio nuove porte o finestre o ingrandire quelle esistenti, trattandosi di opere di per sè non incidenti sulla destinazione della cosa (cfr. Cass. 4996/94; 20200/05; 13874/10), fermo l’obbligo, ovviamente, di non pregiudicare il decoro architettonico dell’edificio.

Essi proseguono precisando come tale facoltà sia stata ammessa anche con riguardo al tetto degli edifici, così statuendo: “…il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune, può aprire su esso abbaini e finestre – non incompatibili con la sua destinazione naturale – per dare aria e luce alla sua proprietà, purchè le opere siano a regola d’arte e non pregiudichino la funzione di copertura propria del tetto, nè ledano i diritti degli altri condomini sul medesimo” (cfr. Cass. 17099/06; 1498/98).

Da quanto sopra detto, i Giudici di Piazza Cavour desumono come si possa dubitare “circa la fondatezza della perentoria affermazione di divieto di modesti tagli del tetto”.

Quali sono allora i presupposti e i limiti che consentirebbero al condomino di effettuare tali opere?

Sul punto, la Suprema Corte precisa come i parametri siano sostanzialmente due: da una parte le modifiche non devono mutare significativamente la consistenza del bene (anche in relazione alla destinazione della modifica stessa), dall’altra devono permettere il pari uso della cosa comune.

Per quanto concerne tale ultimo concetto, la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., sez. 2^, 30-05-2003, n. 8808) ha stabilito che “la nozione di pari uso della cosa comune cui fa riferimento l’art. 1102 c.c. – che in virtù del richiamo contenuto nell’art. 1139 c.c. è applicabile anche in materia di condominio negli edifici – non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri. Essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto” (così Cass., sez. 2^, 30-05-2003, n. 8808).

Muovendo da questi principi” – prosegue la Corte – “che contengono pertinenti richiami al principio solidaristico, si impone una rilettura delle applicazioni dell’istituto di cui all’art. 1102 c.c., che sia quanto più favorevole possibile allo sviluppo delle esigenze abitative”.

In conclusione, se è consentita l’apertura di finestre da tetto, con notevole efficacia coibente, altrettanto deve dirsi per quanto riguarda la realizzazione di piccole terrazze, che possano sostituire il tetto nella funzione di copertura dell’edificio.

I Giudici di Piazza Cavour, infatti, ritengono che in questi casi “Non è funzionalmente alterata la destinazione del tetto, se alla falda si sostituisce un’opera di isolamento e coibentazione inserita nel piano di calpestio.

Pertanto la soppressione di una piccola parte del tetto, se viene salvaguardata diversamente la funzione di copertura e si realizza nel contempo un uso più intenso da parte del condomino, non può esser intesa come alterazione della destinazione, comunque assolta dal bene nel suo complesso.

Ovviamente il giudizio sul punto andrà formulato caso per caso, in relazione alle circostanze peculiari e si risolve in un giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità solo avendo riguardo alla motivazione”.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 3 agosto 2012, n. 14107

Svolgimento del processo

1) La controversia concerne l’azione di rimessione in pristino promossa dai proprietari del piano terra di un edificio, sito in (OMISSIS), nei confronti della società A. srl, proprietaria di soffitte asseritamente trasformate in mansarde abitabili, con parziale abbattimento del tetto e innalzamento della parte residua di esso.

La resistenza della convenuta è stata imperniata sul diritto di eseguire modifiche e innovazioni in forza di più convenzioni intercorse tra gli attori ( P. e Li.Pi. e P.A. M.) e i propri danti causa.

Il tribunale di Pistoia ha rigettato la domanda sul rilievo dell’inesistenza di un regolamento di condominio e della portata onnicomprensiva degli accordi intercorsi.

La Corte di appello di Firenze il 19 giugno 2009 ha accolto il gravame interposto dai sigg. L. – P. e, riconosciuta l’esistenza del condominio, ha escluso che nell’ambito degli accordi fosse stata consentita anche la modifica del tetto.

Ha pertanto disposto la “riduzione in pristino stato del tetto condominiale dell’edificio.

Srl A. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 20 settembre 2010, articolato su 5 motivi.

Gli attori L. – P. hanno resistito con controricorso.

Le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

2) Con il primo motivo, che denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 100 e 1117, in relazione agli artt. 1362, 1363, 1366, 1367 e 1371 c.c., la ricorrente contesta la natura condominiale dello stabile di (OMISSIS), assumendo che “dalle convenzioni inter partes” si ricava la comune intenzione di esse di non costituire alcun condominio.

La censura è imperniata sulla tesi che il condominio si forma solo se non c’è un regolamento negoziale contrario al suo sorgere, in quanto i beni elencati nell’art. 1117 c.c. sono comuni solo “se il contrario non risulta dal titolo”.

Nel caso di specie il titolo sarebbe costituito dalle convenzioni firmate dalle parti e/o dai loro danti causa, ove correttamente interpretate.

Le parti avrebbero voluto sciogliere la comunione senza costituire un condominio, ma dettando una “disciplina alternativa a quella codicistica”, come si dovrebbe desumere da tre elementi specificati nel quesito di diritto: c.1) aver dettato disposizioni analitiche circa la proprietà di strutture elencate all’art. 1117; c.2) aver dato alle parti la facoltà di compiere interventi edilizi senza corrispondere alcuna indennità; c.3) aver attribuito alla parte titolare del sottotetto la facoltà di modificarlo creando balconi, con ciò consentendo anche la sopraelevazione del tetto per poter accedere ai locali dai quali i balconi dovevano aggettare.

2.1) La censura è manifestamente infondata.

La Corte d’appello ha correttamente ritenuto che la presenza di più proprietari di singole unità immobiliari poste nello stesso stabile fosse sufficiente a dar conto della avvenuta formazione del condominio (risalente, par di capire da quanto riferito a pag. 8 del ricorso, all’atto di divisione del 1979 tra P.A.M. e i signori F. – P.M., questi ultimi danti causa di srl Adir), con la proprietà comune dei beni indicati all’art. 1117 c.c.

Per contestare ciò, il ricorso si sforza di dimostrare l’esistenza di un titolo contrario.

Il ricorso chiede in sostanza un riesame dell’interpretazione contrattuale alla luce della intenzione che sarebbe stata manifestata dalle parti e dell’interpretazione complessiva delle clausole.

I brani degli atti riportati in ricorso non evidenziano però alcun vizio interpretativo consistente nel non aver compreso l’esistenza di un titolo contrario alla proprietà comune.

Si riportano infatti: 1) pattuizioni relative all’assenso alla modifica, ampliamento e spostamento di finestre; alla possibilità di innalzare una canna fumaria (punto A. 2 pag 8 ricorso). 2) pattuizioni relative a costituzioni di servitù in cambio delle quali A. avrebbe ottenuto il diritto di edificare e mantenere balconi al piano prima e piano soffitte (punto A. 3). 3) Facoltà di effettuare interventi di ristrutturazione edilizia nella proprietà P. – F. con rinuncia ad ogni indennità (punto A.7).

A fronte di simili riferimenti, non è dato comprendere come da essi si possa evincere che non sia stata semplicemente pattuita una attribuzione di singole unità immobiliari in scioglimento della originaria comproprietà, con conseguente nascita del condominio.

Non vi è invero alcuna specifica attribuzione della proprietà (almeno) delle parti elencate nell’art. 1117 a ciascun singolo condomino, nè viene segnalata la presenza di una clausola specificamente contraria al disposto dell’art. 1117. Le pattuizioni invocate confermano invece la piena consapevolezza delle parti degli obblighi condominiali nascenti dalla costituzione del condominio, essendosi esse preoccupate di concedersi deroghe a facoltà di modifiche e ampliamenti delle parti private che avrebbero potuto essere altrimenti inibite o ostacolate dai condomini.

E’ dunque evidente la consapevolezza dei contraenti di trovarsi in regime condominiale e la preoccupazione di derogarla limitatamente a quanto specificamente assentito.

La mancanza di ogni riferimento alla volontà di derogare all’istituto condominiale o alla proprietà dei principali beni comuni rende già sufficientemente conto della infondatezza della tesi dedotta in questa prima censura.

3) Il secondo motivo, che denuncia vizi di motivazione, censura la sentenza per aver ritenuto che la terrazza a tasca realizzata “lato strada” avrebbe natura condominiale, “essendo invece pacifico che essa ricade integralmente su una porzione del piano di calpestio dell’attico di proprietà esclusiva”.

La doglianza non merita accoglimento.

La sentenza impugnata non ha inteso affermare quanto parte ricorrente teme.

Essa, sia pure con espressione non cristallina, ha affermato soltanto, in accordo con la giurisprudenza specificamente citata, che la demolizione di parte della falda aveva dato luogo a una struttura – sostitutiva del tetto a falda – che per usucapione avrebbe fatto “insorgere la proprietà individuale su quella parte che in precedenza era comune”.

Ciò significa – e in tal senso va intesa la motivazione – che si sarebbe consumata una definitiva appropriazione di quella parte del tetto spiovente, in violazione dei diritti di comproprietà e delle inerenti facoltà di uso degli altri condomini, non più rimovibile trascorsi venti anni.

Ciò è reso palese dal riferimento testuale alla parte che era comune e dal preciso richiamo di Cass. 3199/83, la quale ha considerato proprio come appropriazione di cosa comune “la trasformazione in terrazzo di parte del tetto di copertura di un edificio condominiale ad opera del condomino proprietario del piano adiacente e non sottostante e l’annessione del terrazzo alla sua proprietà esclusiva” Chiarito che la sentenza non ha voluto riferirsi ad usucapione del piano di calpestio della neo costituita terrazza, cioè di quel che era parte del pavimento dell’appartamento di parte convenuta, la doglianza risulta infondata.

4) Il terzo motivo muove dalla tesi esposta nel precedente, al quale è strettamente connesso.

Parte ricorrente, timorosa, per equivoco sulla reale portata della decisione impugnata, che sia stato affermato che la terrazza costituisce “un lastrico solare di natura condominiale”, attacca questa ipotesi sotto più profili.

Denuncia quindi violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e art. 2909 c.c., sostenendo che sarebbe stata in tal modo perpetrata ultrapetizione, perchè parte attrice non aveva mai domandato l’accertamento della proprietà condominiale del lastrico solare e violazione del giudicato interno, perchè la sentenza di primo grado, non impugnata sul punto, aveva stabilito che il terzo piano era di proprietà della odierna ricorrente.

Le censure, atteso quanto esposto al paragrafo precedente, sono inammissibili, poichè non colgono una ratio decidendi della sentenza. Mette conto in proposito osservare che anche parte controricorrente, che se ne sarebbe potuta giovare, non ipotizza neppur lontanamente che la Corte d’appello abbia voluto pronunciare nel senso fatto oggetto di censura.

Anch’essa prudentemente interpreta la pronuncia impugnata secondo l’unico significato congruente: aver voluto sancire la condominialità del tetto a falda e l’abusività dell’alterazione di esso, tale da impedire agli altri condomini di far uso di quella parte di tetto demolita per costituire la terrazza (controricorso pag. 24 e 25).

5) Il cuore del ricorso, che merita sul punto accoglimento, è nel quarto motivo, ove si censura la sentenza della corte territoriale per “non aver accertato l’ammissibilità ex art. 1102 c.c. degli interventi effettivamente eseguiti da A. srl sul tetto”. Sebbene la rubrica del motivo menzioni solo il vizio di motivazione, il motivo prospetta in realtà un errore di diritto, come è reso palese dal quesito con cui si conclude, formulato ex art. 366 bis c.p.c..

Parte ricorrente deduce che la modifica consistente nel taglio della parte finale della falda di copertura sul lato di via (OMISSIS), con appoggio finale non più sul vecchio muro, ma su “nuovo muro perimetrale arretrato rispetto al preesistente”, costituisce uso della cosa comune consentito ex art. 1102 c.c., non avendo conseguenze dannose per gli altri condomini. Altrettanto varrebbe, ex art. 1127 c.c., per l’innalzamento della copertura condominiale, ove “la sopraelevazione non comporti la realizzazione di un nuovo piano o di una nuova fabbrica”.

Le censure sono fondate.

Un ripetuto orientamento della Corte (Cass. 3199/83; 4466/97; 1737/05) tramanda che la trasformazione in terrazzo del tetto di copertura di un edificio condominiale ad opera del condomino proprietario del piano adiacente e non sottostante e l’annessione del terrazzo alla sua proprietà esclusiva, mediante creazione di un accesso diretto per uso a lui solo riservato, è illegittima, in quanto tale attività, oltre a non essere riconducibile all’esercizio del diritto di sopraelevazione attribuito al proprietario dell’ultimo piano dello edificio condominiale, realizza, per un verso, alterazione unilaterale della funzione e destinazione, di mera copertura e protezione delle sottostanti strutture, propria del tetto preesistente, e, per altro verso, comporta appropriazione di cosa comune, che integra violazione dei diritti di comproprietà e delle inerenti facoltà di uso e godimento (secondo la sua natura) spettanti agli altri condomini in ordine a parte comune dello edificio (v. anche 4579/81; 3369/91 e 8777/94).

Si è detto pertanto che la eliminazione del tetto dell’edificio trasformato dal proprietario dell’ultimo piano in terrazza ad uso esclusivo è illegittima perchè impedisce agli altri condomini di poterlo utilizzare per quella finalità (Cass. 24414/06).

Si è aggiunto (Cass. 972/06) che è illegittima la trasformazione, perchè la cosa comune viene sottratta all’utilizzazione da parte degli altri condomini, ed è mutato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, avuto riguardo all’uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno. In tal senso conclude anche Cass. 5753/07, in un caso nel quale i proprietari esclusivi di tutto il sottotetto avevano asportato una “minima” porzione, pari a 9 mq su 150 mq di estensione.

6) Il Collegio reputa che questo orientamento debba essere ripensato sotto più profili.

In primo luogo occorre rilevare una linea di incoerenza di esso con quella giurisprudenza, rafforzatasi nel corso di questi anni, che da facoltà ai condomini di aprire porte e finestre nei muri perimetrali.

E’ da tempo ricorrente l’affermazione che l’ampliamento o l’apertura di una porta o finestra, da parte di un condomino, o la trasformazione di una finestra, che prospetta il cortile comune, in porta di accesso al medesimo, mediante lo abbattimento del corrispondente tratto del muro perimetrale che delimita la proprietà del singolo appartamento, non costituisce, di per sè, abuso della cosa comune idoneo a ledere il compossesso del muro comune (Cass. 703/87; 1112/88).

Si è giustificata questa valutazione, osservando che tale opera non comporta per i condomini una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell’art. 1102 c.c., comma 1, rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione del muro non sia volta ad ovviare a una interclusione, ma si correli soltanto all’intento di conseguire una più comoda fruizione dell’unità immobiliare da parte del suo proprietario (Cass. 4155/94).

Fermo l’obbligo di non pregiudicare il decoro architettonico dell’edificio, è stato sancito pertanto più volte che il condomino può aprire nel muro comune dell’edificio nuove porte o finestre o ingrandire quelle esistenti, trattandosi di opere di per sè non incidenti sulla destinazione della cosa (Cass. 4996/94; 20200/05; 13874/10).

Si è ritenuta anche legittima l’apertura di vetrine da esposizione nel muro perimetrale comune, mediante la demolizione della parte di muro corrispondente alla proprietà esclusiva (Cass. 1554/97).

Proprio nella sentenza da ultimo citata si è precisato che funzione dei muri perimetrali di un fabbricato condominiale è non solo di recingere l’edificio e sorreggere le strutture, ma anche di contenere le porte, le finestre, i balconi etc. L’utilizzazione del muro può consistere nella creazione o ampliamento di aperture.

6.1) Tale facoltà è stata ammessa tuttavia anche con riguardo al tetto degli edifici, affermando che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune, può aprire su esso abbaini e finestre – non incompatibili con la sua destinazione naturale – per dare aria e luce alla sua proprietà, purchè le opere siano a regola d’arte e non pregiudichino la funzione di copertura propria del tetto, nè ledano i diritti degli altri condomini sul medesimo (Cass. 17099/06; 1498/98).

Questa ormai pacifica facoltà di frantumare l’unitarietà strutturale del bene perimetrale (muro o tetto che sia) fa dubitare circa la fondatezza della perentoria affermazione di divieto di modesti tagli del tetto.

Qualora detti tagli diano luogo a modifiche non significative della consistenza del bene, in rapporto alla sua estensione e alla destinazione della modifica stessa, può dirsi che rientrino nell’ambito delle opere consentite al singolo condomino. Dal punto di vista strutturale si può dar luogo a interventi meno vistosi della realizzazione di un abbaino, che, se attuati con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali, sono compatibili con il mantenimento della destinazione della cosa locata.

6.2) Questa considerazione, formulata per assimilazione tra diverse opere che incidono su una parte perimetrale dell’edificio (muro o tetto), deve essere verificata alla luce dei due concetti fondamentali di destinazione della cosa comune e di pari uso della cosa comune.

Conviene muovere da quest’ ultimo.

La giurisprudenza di legittimità, in uno degli svolgimenti più acuti in materia, ha stabilito che “la nozione di pari uso della cosa comune cui fa riferimento l’art. 1102 c.c. – che in virtù del richiamo contenuto nell’art. 1139 c.c. è applicabile anche in materia di condominio negli edifici – non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri. Essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto (così Cass., sez. 2^, 30-05-2003, n. 8808).

Muovendo da questi principi, che contengono pertinenti richiami al principio solidaristico, si impone una rilettura delle applicazioni dell’istituto di cui all’art. 1102 c.c., che sia quanto più favorevole possibile allo sviluppo delle esigenze abitative.

Questo sviluppo si ripercuote favorevolmente sulla valorizzazione della proprietà del singolo, ma mira soprattutto a moderare le istanze egoistiche che sono sovente alla base degli ostacoli frapposti a modifiche delle parti comuni come quella in esame. In una visione del regime condominiale tesa a depotenziare i poteri preclusivi dei singoli e a favorire la correntezza dei rapporti (si pensi a Cass. SU 4806/05 in tema di deliberazioni nulle o annullabili) non è coerente, nè credibile, intendere la clausola del “pari uso della cosa comune” come veicolo per giustificare impedimenti all’estrinsecarsi delle potenzialità di godimento del singolo.

Qualora non siano specificamente individuabili i sacrifici in concreto imposti al condomino che si oppone, non si può proibire la modifica che costituisca uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, anche in assenza di un beneficio collettivo derivante dalla modificazione.

Non lo si può chiedere in funzione di un’astratta o velleitaria possibilità di alternativo uso della cosa comune o di un suo ipotetico depotenziamento (cfr Cass. 4617/07), ma solo ove sia in concreto ravvisabile che l’uso privato toglierebbe reali possibilità di uso della cosa comune agli altri potenziali condomini-utenti (cfr Cass. 17208/08 che ha escluso la legittimità dell’installazione e utilizzazione esclusiva, da parte di un condomino titolare di un esercizio commerciale, di fioriere, tavolini, sedie e di una struttura tubolare con annesso tendone).

Se è intuitivo, alla stregua della definizione data da 8808/03, che non è conforme a diritto impedire al proprietario del sottotetto di installare una finestra da tetto perchè il proprietario di un piano intermedio non potrebbe fare altrettanto, è inevitabile interrogarsi sulla nuova frontiera tra uso consentito della cosa comune e alterazione di essa, alla luce da un lato del principio solidaristico e dall’altro delle moderne possibilità edificatorie.

6.3) La destinazione della cosa, di cui è vietata l’alterazione, è da intendere in una prospettiva dinamica del bene considerato. La possibilità, dianzi ricordata, di applicare finestre da tetto con notevole efficacia coibente e gradevoli esteticamente contribuisce senz’altro a far ritenere compatibile tale utilizzo con il rispetto della destinazione del bene.

Altrettanto può valere per la realizzazione di piccole terrazze che sostituiscano efficacemente il tetto spiovente nella funzione di copertura dell’edificio.

Non è funzionalmente alterata la destinazione del tetto, se alla falda si sostituisce un’opera di isolamento e coibentazione inserita nel piano di calpestio.

Rimane da chiedersi se la materiale soppressione di una porzione limitata della falda sia di per sè alterazione della destinazione della cosa.

La risposta deve essere negativa, perchè per destinazione della cosa si intende la complessiva destinazione di essa, che deve essere salva in relazione alla funzione del bene e non alla sua immodificabile consistenza materiale.

Pertanto la soppressione di una piccola parte del tetto, se viene salvaguardata diversamente la funzione di copertura e si realizza nel contempo un uso più intenso da parte del condomino, non può esser intesa come alterazione della destinazione, comunque assolta dal bene nel suo complesso.

Ovviamente il giudizio sul punto andrà formulato caso per caso, in relazione alle circostanze peculiari e si risolve in un giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità solo avendo riguardo alla motivazione.

7) Resta da aggiungere che l’innalzamento del tetto, funzionale alla realizzazione della modifica della falda, non è, nella sentenza impugnata, autonomo oggetto di ratio decidendi.

La Corte d’appello di Firenze ha ritenuto l’illegittimità dell’opera prescindendo da esso.

Non v’ è quindi materia per esaminare il relativo profilo del motivo di ricorso.

Spetterà al giudice di rinvio verificare l’incidenza di tale innalzamento alla luce dei principi sopraenunciati sull’utilizzo della cosa comune e, ove applicabili in relazione all’entità di questa modifica, di quelli conosciuti in tema di sopraelevazione da parte del proprietario dell’ultimo piano.

8) L’ultimo motivo di ricorso, che lamenta violazione dell’art. 120 c.c. resta assorbito nell’accoglimento del quarto motivo, poichè ipotizza una subordinata prospettiva di legittimità dell’opera su cui la Corte d’appello è nuovamente chiamata a pronunciarsi.

La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa ad altra sezione della Corte di appello di Firenze che liquiderà le spese di questo giudizio, procederà a nuovo esame e si atterrà al seguente principio:

“Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune, può effettuare la trasformazione di una parte del tetto dell’edificio in terrazza ad uso esclusivo proprio, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene”.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso, assorbito il quinto.

Rigettati gli altri.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Firenze, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

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L’immagine del post è stata realizzata da ghansela, rilasciata con licenza cc.

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