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La Suprema Corte torna ad occuparsi di una questione fortemente dibattuta nell’ambito della responsabilità da malpractice medica, cioè quella relativa all’enucleazione dei fatti da provare e alla distribuzione dell’onere della prova nei giudizi risarcitori da nascita indesiderata (per approfondimenti vedi anche Danno da omessa diagnosi di malformazioni fetali).

Il fatto. Il (OMISSIS) la signora G.M.C., in stato di gravidanza, si rivolse al Dott. C. per un controllo della gestazione. Una nuova visita ebbe luogo il successivo (OMISSIS), allorchè fu eseguita anche una ecografia, senza che venisse rilevata alcuna anomalia. Il (OMISSIS), infine, nacque il piccolo M., che risultò affetto dalla patologia denominata spina bifide.

Con citazione notificata il 30 aprile 1997 P.P. e G. M.C., in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sul figlio M., convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Lucca, il Dott. C., allegando la responsabilità dello stesso per la mancata, tempestiva diagnosi delle malformazioni fetali, la quale aveva impedito alla gestante di esercitare il diritto di chiedere l’interruzione della gravidanza, secondo le prescrizioni della L. n. 194 del 1978, art. 6.

Costituitosi in giudizio, il convenuto contestò le avverse pretese.

Chiese ed ottenne di chiamare in causa l’Azienda USL (OMISSIS), dalla quale dipendevano i medici che avevano espletato gli esami ecografici alla 31, alla 33 e alla 36 settimana, e che nessuna anomalia avevano riscontrato.

Esaurita la fase istruttoria, il giudice adito condannò il ginecologo a pagare agli attori, in proprio, la somma di Euro 600.000,00, con gli interessi legali dalla sentenza al saldo; rigettò invece la domanda dagli stessi avanzata in nome e per conto del figlio.

Adita la Corte d’Appello, quest’ultima asseriva come dalle risultanze istruttorie non fossero emersi elementi sicuri per affermare, sia pure attraverso un giudizio ex ante e in termini di pura probabilità, che la notizia della malformazione del feto avrebbe determinato un processo patologico consistente in un grave pericolo per la salute psichica di G.M.C., in difetto di qualunque riscontro, anche indiziario, sul punto.

In particolare, dal motivato parere dell’ausiliario era emerso che la G. era del tutto esente da pregresse manifestazioni psicopatologiche in epoca anteriore alla gravidanza e che, dopo il parto, la condizione psichica della stessa si inquadrava nell’ambito di una situazione di scompenso psicocomportamentale da ritenersi fisiologico in relazione al verificarsi di un evento fortemente stressante.

Era altresì rilevato che non erano emersi elementi indicativi della concreta volontà della gestante di esercitare il diritto alla interruzione della gravidanza, non essendo stata contestata la circostanza, dedotta dal C., che la stessa aveva dichiarato di non volersi sottoporre ad amniocentesi, trattandosi di esame che presentava rischi di aborto.

Ha quindi concluso che, pur essendo stato provato l’inadempimento del medico, non era stata fornita, da parte dell’attrice, la prova nè della sussistenza dei presupposti ai quali la L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), subordina l’esercizio del diritto alla interruzione della gravidanza, nè della volontà di esercitarlo, da parte della gestante.

La decisione. La Suprema Corte (sent. n. 7269/13), prima di entrare nel merito della questione, ha proceduto a fare un breve excursus legislativo e giurisprudenziale della materia.

Dal primo punto di vista, la L. n. 194 del 1978, dispone che, dopo i primi novanta giorni, l’interruzione volontaria della gestazione può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna (art. 6 lett. a), con la precisazione che in questo caso, e solo in questo, l’interruzione può essere attuata anche se sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, tanto vero che il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardarla (art. 7, comma 3); b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

La questione, però, è capire quali siano i fatti da provare e su chi ricada il relativo onere della prova.

Con la sentenza n. 6735/02 i Giudici di legittimità statuirono che “nella causa tra la donna che chiede il risarcimento dei danni derivatile dal non aver potuto esercitare il suo diritto ed il medico che sostiene non essere stato il danno effetto del proprio inadempimento perchè la donna non avrebbe comunque potuto o voluto interrompere la gravidanza, alla donna spetta dimostrare i fatti costitutivi della pretesa azionata, al medico i fatti idonei ad escluderla, in questi ultimi inscrivendo anche la prova che, all’epoca in cui ebbe a maturare l’inadempimento, il feto era già pervenuto alla condizione della possibilità di vita autonoma.

Sennonchè, dalla constatazione che, nel ricorso di dati presupposti, tra i quali sono, appunto, le anomalie e le malformazioni del nascituro, la legge consente alla donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al suo stato di salute, la Corte, nel medesimo arresto, desunse altresì la legittimità, per il giudice, di assumere come normale e corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto e conseguentemente di ricondurre al difetto di informazione, come alla sua causa, il mancato esercizio di quella facoltà”.

Siffatto orientamento, tuttavia, può portare ad esiti non soddisfacenti dal punto di vista dell’equo contemperamento degli opposti interessi, in quanto finisce per far scattare una presunzione iuris tantum di sussistenza delle condizioni che avrebbero legittimato l’interruzione a fronte della sola allegazione della donna che, se informata, si sarebbe avvalsa del diritto di interrompere la gravidanza.

Secondo la Corte, così facendo, cioè sostenendo che vi è un criterio di regolarità causale in base al quale la gestante, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione importante, preferisca non portare a termine la gravidanza, si finisce per addossare sul medico “l’onere, sotto certi profili per vero diabolico, di provare che, per l’una o per l’altra ragione, la donna, benchè informata, non avrebbe potuto o voluto abortire, con conseguente tracimazione del giudizio risarcitorio in una vicenda para-assicurativa collegata al solo verificarsi dell’evento di danno e dell’inadempimento del sanitario”.

Da queste premesse, in epoca successiva, la Corte di Cassazione ha ritenuto più equo richiedere che spetti alla parte attrice integrare il contenuto di quella presunzione con elementi ulteriori (di qualsiasi genere) da sottoporre all’esame del decidente per una valutazione finale circa la corrispondenza della presunzione stessa all’asserto illustrato in citazione (cfr. Cass. civ. 16754/2012).

Implicito corollario di tale assunto è che il rischio della mancanza o della insufficienza del quadro probatorio acquisito andrà a suo carico.

Al fine di rendere concreti i predetti principi, i Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che “In tale contesto, e pur nella consapevolezza che nella prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo per contro sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità e di probabilità (confr. Cass. civ. 31 ottobre 2011, n. 22656), appare opportuno precisare che la stessa richiesta di accertamento diagnostico e anche di più accertamenti diagnostici, ove non espressamente funzionalizzati alla verifica di eventuali anomalie del feto, è, al postutto, un indice niente affatto univoco della volontà di avvalersi della facoltà di sopprimerlo, ove anomalie dovessero emergere, innumerevoli essendo le ragioni che possono spingere la donna ad esigerli, e il medico a prescriverli, a partire dalla elementare volontà di gestire al meglio la gravidanza, pilotandola verso un parto che, per le condizioni, i tempi e il tipo, sia il più consono alla nascita di quel figlio, quand’anche malformato.

Resta peraltro fermo che la verifica dell’esistenza o meno, all’epoca dell’assunto diritto all’interruzione della gravidanza, del grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, va condotto con giudizio ex ante, di talchè ciò che si è effettivamente verificato successivamente può avere solo valore indiziario o corroborativo, ma non decisivo (cfr. Cass. civ. 29 luglio 2004, n. 14488)”.

Tornando al caso di specie, la Suprema Corte ha in parte accolto i motivi di ricorso dei genitori, ritenendo che “La negativa valutazione in ordine all’impatto della notizia della malformazione del feto sulle condizioni psichiche della G., nel senso della insussistenza di elementi che consentissero di ipotizzare, seppure in termini di mera probabilità, l’insorgere di un processo patologico consistente in un grave pericolo per la sua salute mentale, è stata infatti espressa sulla base dell’asciutta considerazione dello stato della madre prima e dopo la gravidanza, senza alcuna considerazione di altri elementi decisivi, a partire dalla gravità delle patologie del nascituro, che interagendo con la propensione a una procreazione fortemente desiderata, ma cosciente e responsabile, bene avrebbero potuto scatenare conflitti e scompensi psicocomportamentali severi. E del pari del tutto apodittica è la rilevata assenza di elementi indicativi della concreta volontà di abortire della donna, considerato che anche il rifiuto di sottoporsi ad amniocentesi, per i rischi ad essa connessi, è indice estremamente ambiguo, allorchè venga espresso in un contesto diagnostico non allarmante, di talchè la percezione del pericolo di danneggiare inutilmente un feto sano è ragionevolmente più forte del timore di mettere al mondo un bimbo gravemente malato.

Parzialmente fondato è anche il quinto motivo di ricorso, che conviene qui esaminare in precedenza, rispetto al quarto. Non v’ha dubbio che il primo bersaglio dell’inadempimento del medico è il diritto dei genitori di essere informati, al fine, indipendentemente dall’eventuale maturazione delle condizioni che abilitano la donna a chiedere l’interruzione della gravidanza, di prepararsi psicologicamente e, se del caso, anche materialmente, all’arrivo di un figlio menomato. E la richiesta dei corrispondenti pregiudizi deve ritenersi consustanzialmente insita nella domanda di risarcimento dei danni derivati dalla nascita, quali il danno biologico in tutte le sue forme e il danno economico, che di quell’inadempimento sia conseguenza immediata e diretta in termini di causalità adeguata (cfr. Cass. civ. 1 dicembre 1998, n. 12195)”.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 22 marzo 2013, n. 7269

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 17367/2007 proposto da:

P.P. (OMISSIS), G.M.C. (OMISSIS), in proprio e nei nomi del figlio minore P. M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CAIO MARIO 27, presso lo studio dell’avvocato M. F., rappresentati e difesi dall’avvocato S. C. giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AZIENDA USL N. (OMISSIS), C.P.;

– intimati –

sul ricorso 20799/2007 proposto da:

C.P. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CICERONE 49, presso lo studio dell’avvocato P. M., che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato R. R. giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.M.C., P.P., AZIENDA USL N. (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 222/2007 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata l’08/02/2007, R.G.N. 1570/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/02/2013 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

udito l’Avvocato M. P.;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per l’accoglimento di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo

Il (OMISSIS) la signora G.M.C., in stato di gravidanza, si rivolse al Dott. C. per un controllo della gestazione. Una nuova visita ebbe luogo il successivo (OMISSIS), allorchè fu eseguita anche una ecografia, senza che venisse rilevata alcuna anomalia. Il (OMISSIS), infine, nacque il piccolo M., che risultò affetto dalla patologia denominata spina bifide.

Con citazione notificata il 30 aprile 1997 P.P. e G. M.C., in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sul figlio M., convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Lucca, il Dott. C., allegando la responsabilità dello stesso per la mancata, tempestiva diagnosi delle malformazioni fetali, la quale aveva impedito alla gestante di esercitare il diritto di chiedere l’interruzione della gravidanza, secondo le prescrizioni della L. n. 194 del 1978, art. 6.

Costituitosi in giudizio, il convenuto contestò le avverse pretese.

Chiese ed ottenne di chiamare in causa l’Azienda USL (OMISSIS), dalla quale dipendevano i medici che avevano espletato gli esami ecografici alla 31, alla 33 e alla 36 settimana, e che nessuna anomalia avevano riscontrato.

Esaurita la fase istruttoria, il giudice adito condannò il ginecologo a pagare agli attori, in proprio, la somma di Euro 600.000,00, con gli interessi legali dalla sentenza al saldo;

rigettò invece la domanda dagli stessi avanzata in nome e per conto del figlio.

Proposto dal C. gravame, la Corte d’appello di Firenze, in data 8 febbraio 2007, ha respinto la domanda di G.M. C., compensando integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi.

Nel motivare il suo convincimento ha rilevato il giudice di merito che il dottor C., in adempimento dell’obbligazione professionale assunta, avrebbe dovuto invitare la gestante ad effettuare l’esame dell’alfa-fetoproteina AFP, dato che proprio attraverso l’indagine ecografica tra la 16 e la 20 settimana era possibile riscontrare anomalie del feto, effettuando, in particolare, la diagnosi prenatale della mielomeningocele. Ha anche aggiunto che, secondo il motivato parere dell’ausiliario, la refertazione del convenuto, in occasione del test eseguito il (OMISSIS), indipendentemente dalla sua qualificazione in termini di ecografia morfologica o di test di mero supporto alla visita medica, non soddisfaceva i requisiti minimi standard per il monitoraggio di una eventuale condizione di idrocefalia.

Ritenuto quindi accertato l’inadempimento del ginecologo, ha poi evidenziato che, a norma della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), perchè possa essere praticata l’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, non è sufficiente che siano accertati processi patologici, tra i quali quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, ma è necessario che essi determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Andando quindi a valutare le risultanze della compiuta istruttoria, ha evidenziato che dalla stessa non erano emersi elementi sicuri per affermare, sia pure attraverso un giudizio ex ante e in termini di pura probabilità, che la notizia della malformazione del feto avrebbe determinato un processo patologico consistente in un grave pericolo per la salute psichica di G.M.C., in difetto di qualunque riscontro, anche indiziario, sul punto. Dal motivato parere dell’ausiliario era infatti emerso che la G. era del tutto esente da pregresse manifestazioni psicopatologiche in epoca anteriore alla gravidanza e che, dopo il parto, la condizione psichica della stessa si inquadrava nell’ambito di una situazione di scompenso psicocomportamentale da ritenersi fisiologico in relazione al verificarsi di un evento fortemente stressante. Ha poi aggiunto che neppure erano emersi elementi indicativi della concreta volontà della gestante di esercitare il diritto alla interruzione della gravidanza, non essendo stata contestata la circostanza, dedotta dal C., che la stessa aveva dichiarato di non volersi sottoporre ad amniocentesi, trattandosi di esame che presentava rischi di aborto. Ha quindi concluso che, pur essendo stato provato l’inadempimento del medico, non era stata fornita, da parte dell’attrice, la prova nè della sussistenza dei presupposti ai quali la L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), subordina l’esercizio del diritto alla interruzione della gravidanza, nè della volontà di esercitarlo, da parte della gestante.

Per la cassazione di detta pronuncia ricorrono a questa Corte P. P. e G.M.C., formulando cinque motivi.

Resiste con controricorso C.P., che propone altresì ricorso incidentale condizionato, affidato a un solo mezzo.

Motivi della decisione

1. I ricorsi hinc et inde proposti avverso la stessa sentenza, devono essere riuniti ex art. 335 c.p.c.

2. Nel primo e nel secondo motivo di ricorso gli impugnanti deducono violazione della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), art. 32 Cost., e art. 2697 c.c. Rilevano che, in base ai principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità: a) il grave pericolo per la salute della donna può anche riguardare soltanto la sfera psichica; b) non è rilevante accertare tanto se nella donna, dopo il parto, si siano effettivamente instaurati siffatti processi patologici, quanto piuttosto se la dovuta informazione avrebbe verosimilmente determinato l’insorgere degli stessi durante la gravidanza; c) appurato il dato oggettivo dell’inadempimento del medico, con conseguente perdita della possibilità di scelta, poteva farsi senz’altro ricorso al ragionamento presuntivo, assumendo come normale e corrispondente a regolarità causale che la gestante avrebbe interrotto la gravidanza, se informata di gravi menomazioni del feto, così riconducendo al difetto di informazione, come alla sua causa, il mancato esercizio di quella facoltà (confr. Cass. civ. 29 luglio 2004, n. 14488; Cass. civ. 10 maggio 2002, n. 6735).

Sostengono quindi che la Curia fiorentina, facendo malgoverno delle pronunce del Supremo Collegio da essa stessa richiamate, non solo aveva affermato che spettava all’attrice dimostrare, anche in via indiziaria, la sussistenza di tutti gli elementi previsti dalla legge per l’esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza, ma aveva rigettato la domanda, benchè, alla stregua del motivato parere del consulente tecnico, dovesse ritenersi provato, quanto meno in termini di probabilità scientifica, che la patologia richiesta dalla L. n. 194, art. 6, per ricorrere all’interruzione della gravidanza si sarebbe manifestata e che, in tale contesto, la gestante si sarebbe determinata a praticare l’aborto. Segnatamente non aveva il decidente considerato che all’insussistenza di patologie psichiche prima e dopo la gravidanza, non poteva attribuirsi rilevanza indiziaria negativa ai fini della dimostrazione della possibile, anzi probabile insorgenza di gravi disturbi nella donna, ove la stessa avesse conosciuto durante la gestazione le anomalie del feto, stante l’eccezionalità dell’ipotesi che, in condizioni siffatte, la madre decida di portare ugualmente a termine la gravidanza, ipotesi che, proprio per questo, avrebbe dovuto essere sorretta da specifici elementi di prova. Nè aveva la Corte valutato che dati indicativi della volontà di esercitare, in concreto, il diritto di interrompere la gravidanza potevano trarsi da fattori ambientali, culturali, personali, e dallo stesso fatto che la gestante si era rivolta al professionista per esami finalizzati a conoscere le condizioni del feto: in particolare, un indizio decisivo andava individuato proprio nella particolare gravità dell’handicap del figlio, atteso che la conoscenza di un fatto così drammatico e gravido di implicazioni personali e familiari avrebbe presumibilmente originato nella madre uno sconvolgimento psichico.

Assumono infine gli esponenti, quanto alla prova che la G. avrebbe, in concreto, esercitato il diritto di interrompere la gravidanza, che il decidente non aveva adeguatamente valorizzato la portata indiziante delle numerose ecografie chieste dalla gestante, le quali dimostravano inequivocabilmente l’orientamento della stessa di rifiutare di portare a termine la gravidanza qualora fossero emerse anomalie del feto.

4 Con il terzo mezzo i ricorrenti denunciano violazione della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), art. 32 Cost., e art. 2697 c.c., con riferimento alla mancata ammissione della prova per testi volta a dimostrare che la G. aveva consigliato alla cugina incinta di interrompere la gravidanza, essendo emerso che il bambino era malformato, trattandosi di fatto successivo e non indicativo delle determinazioni che ella stessa avrebbe assunto ove informata, durante la gestazione, delle anomalie del bambino che portava in grembo.

Sostengono per contro gli impugnanti che il giudizio ex ante ben poteva essere confortato dalla prova di un comportamento successivo della parte, di talchè doveva essere data alla ricorrente l’opportunità di dimostrare che non sussistevano per lei convincimenti di ordine morale e religioso contrari alla pratica dell’aborto.

5 Con il quarto motivo si prospetta violazione degli artt. 29 e 30 Cost., artt. 143, 147, 261 e 279 c.c., nonchè della L. n. 194 del 1978, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Deducono gli impugnanti che il giudice di merito aveva negato ogni diritto al risarcimento del danno, ma nei confronti della sola madre del piccolo M., ignorando del tutto la domanda del padre, laddove anche a questi spettava il ristoro dei pregiudizi patiti (confr. Cass. civ. 29 luglio 2004, n. 14488; Cass. civ. 20 ottobre 2005, n. 20320).

6. Con il quinto mezzo lamentano violazione degli artt. 32 e 2 Cost., artt. 1176, 2043, 2059 e 2057 c.c., per non avere la Corte territoriale considerato che l’affermazione della insussistenza di danni rapportabili al mancato esercizio del diritto di interrompere la gravidanza comportava la necessità di considerare e valutare una serie di autonome e diverse voci di danno (che pure erano state liquidate dal Tribunale), sostanzialmente rapportabili alla mancanza di una adeguata e tempestiva informazione in ordine alla esistenza delle gravissime malformazioni del figlio. E invero per effetto della condotta del medico non solo essi non si erano preparati in alcun modo, sia psicologicamente che materialmente all’evento, ma quell’inadempimento aveva precluso, a danno loro e del figlio, il ricorso a tempestivi e adeguati interventi atti a migliorare (o contenere) il gravissimo handicap del bimbo, a partire dalla necessità di procedere al taglio cesareo in modo da non traumatizzare il sacco ernario e da evitare, come accertato dal c.t.u., ulteriori compromissioni anatomo-funzionali alle strutture nervose ivi contenute.

7 Nell’unico motivo del ricorso incidentale condizionato, il C. lamenta violazione dell’art. 41 c.p., artt. 1225 e 2043 c.c.. Deduce che la Corte d’appello, ritenendo assorbita la questione, non aveva analizzato il profilo della responsabilità dei sanitari della Azienda USL (OMISSIS) che effettuarono gli esami ecografici di routine nel corso della gestazione, laddove l’erronea diagnosi ad opera degli stessi costituiva elemento da solo idoneo a determinare l’evento, interrompendo il nesso eziologico tra la pretesa condotta omissiva del C. e l’evento dannoso.

8. Il ricorso principale è fondato nei termini che qui di seguito si vanno a precisare.

I primi due motivi, congiuntamente formulati, ripropongono alla Corte la questione della distribuzione dell’onere della prova e, anzi, a monte, quella della esatta enucleazione dei fatti da provare, nei giudizi risarcitori da nascita indesiderata: questione che, esaminata all’infuori degli schematismi e degli stereotipi di soluzioni fortemente condizionate da implicazioni emotive e da opzioni ideologiche, è particolarmente delicata e complessa.

Occorre muovere dalla considerazione che la L. n. 194 del 1978, dispone che, dopo i primi novanta giorni, l’interruzione volontaria della gestazione può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna (art. 6 lett. a), con la precisazione che in questo caso, e solo in questo, l’interruzione può essere attuata anche se sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, tanto vero che il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardarla (art. 7, comma 3); b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

9. A fronte di tale dettato normativo, uno dei primi arresti di questa Corte in materia, affrontando funditus il problema dell’area delle valutazioni demandate al giudice in caso di diagnosi prenatale sbagliata, ebbe a subordinare la verifica dell’inadempimento del sanitario a un duplice meccanismo prognostico, proiettato al momento della commissione dell’errore: l’impossibilità di vita autonoma del feto e la potenzialità dell’informazione omessa, trattandosi di stabilire se essa avrebbe provocato un processo patologico tale da determinare un grave pericolo per la salute della donna, e se, una volta appresa la notizia della malformazione, la donna avrebbe effettivamente optato per l’interruzione della gravidanza (confr. Cass. civ. 1 dicembre 1998). Peraltro, sulla scia dell’abbrivio della pronuncia delle sezioni unite 30 ottobre 2001, n. 13533, la successiva sentenza della terza sezione 10 maggio 2002, n. 6735, statuì che, nella causa tra la donna che chiede il risarcimento dei danni derivatile dal non aver potuto esercitare il suo diritto ed il medico che sostiene non essere stato il danno effetto del proprio inadempimento perchè la donna non avrebbe comunque potuto o voluto interrompere la gravidanza, alla donna spetta dimostrare i fatti costitutivi della pretesa azionata, al medico i fatti idonei ad escluderla, in questi ultimi inscrivendo anche la prova che, all’epoca in cui ebbe a maturare l’inadempimento, il feto era già pervenuto alla condizione della possibilità di vita autonoma.

Sennonchè, dalla constatazione che, nel ricorso di dati presupposti, tra i quali sono, appunto, le anomalie e le malformazioni del nascituro, la legge consente alla donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al suo stato di salute, la Corte, nel medesimo arresto, desunse altresì la legittimità, per il giudice, di assumere come normale e corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto e conseguentemente di ricondurre al difetto di informazione, come alla sua causa, il mancato esercizio di quella facoltà (confr. Cass. civ. n. 6735/2002 cit.).

10. In continuità con tali enunciati, la successiva giurisprudenza di legittimità, pur nella riaffermazione, a questo punto quasi tralaticia, della spettanza alla donna dell’onere di dimostrare che l’accertamento dell’esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica (confr. Cass. civ. 10 novembre 2010, n. 22837; Cass. civ. 2 febbraio 2010, n. 2354; Cass. civ. 4 gennaio 2010, n. 13; Cass. civ. 21 giugno 2004, n. 11488), ha, da un lato, ritenuto che il fatto stesso che una donna sostenga che si sarebbe avvalsa della facoltà di interrompere volontariamente la gravidanza se fosse stata informata della grave malformazione del bambino, presuppone l’implicita affermazione della sussistenza ipotetica delle condizioni di legge per farvi ricorso; dall’altro, ha considerato, come dato imprescindibile desunto dall’osservazione dei fenomeni sociali, che è bassissima la frequenza di esito negativo dell’accertamento sul pericolo per la salute della donna in casi di gravissime malformazioni del feto e reciprocamente altissima quella delle interruzioni c.d. terapeutiche della gravidanza che per tale ragioni siano domandate (confr. Cass. civ. 22837/2010 cit.), così di fatto pesantemente condizionando l’apprezzamento, alla stregua dell’ormai consolidato criterio del più probabile che non, della sussistenza del nesso causale tra omessa informazione e nascita indesiderata.

11. Le implicazioni di siffatto orientamento sono di intuitiva evidenza: a dispetto delle affermazioni di principio in ordine ai criteri di riparto dell’onere della prova, esso, a colpi di pretesi indici enucleabili dalla fenomenologia sociologica connessa all’accertamento della malformazione del feto, per la verità ben più variegata e complessa, finisce per far scattare, a fronte della sola allegazione della donna che, se informata, si sarebbe avvalsa del diritto di interrompere la gravidanza, una presunzione iuris tantum di sussistenza delle condizioni che quella interruzione avrebbero legittimato. Non altra sembra invero la concreta valenza, sul piano processuale, della predicata spettanza alla donna dell’onere di dimostrare che l’accertamento dell’esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica, e della contestuale affermazione di un criterio di regolarità causale in base al quale la gestante, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione importante, preferisca non portare a termine la gravidanza. Nè può sfuggire come un approccio siffatto, eludendo le implicazioni del criterio della vicinanza della prova, che più di ogni altro consente applicazioni conformi a comune buon senso della regola di cui all’art. 2697 cod. civ., finisca per rovesciare sul medico l’onere, sotto certi profili per vero diabolico, di provare che, per l’una o per l’altra ragione, la donna, benchè informata, non avrebbe potuto o voluto abortire, con conseguente tracimazione del giudizio risarcitorio in una vicenda para-assicurativa collegata al solo verificarsi dell’evento di danno e dell’inadempimento del sanitario.

12 Sulla questione questa Corte è di recente tornata con la sentenza 2 ottobre 2012, n. 16754 nella quale sembra rinvenibile l’eco del dibattito dottrinale indotto da tali impostazioni.

Dopo aver qualificato la richiesta di accertamento diagnostico, ove sia mancata una espressa manifestazione di volontà di interrompere la gravidanza in caso di risultato infausto dello stesso, elemento indiziante di una volontà che si presume orientata verso un determinato esito finale, e aver chiamato il giudice di merito a desumere caso per caso, senza il ricorso a generalizzazioni di tipo statistico (…), le conseguenti inferenze probatorie e il successivo riparto dei relativi oneri, la Corte è approdata all’affermazione che spetti alla parte attrice integrare il contenuto di quella presunzione con elementi ulteriori (di qualsiasi genere) da sottoporre all’esame del decidente per una valutazione finale circa la corrispondenza della presunzione stessa all’asserto illustrato in citazione (confr. Cass. civ. 16754/2012 cit.).

13. In sostanziale continuità con siffatta linea ermeneutica, ritiene il collegio di dovere anzitutto ricordare che ovvio corollario dell’assunto secondo cui spetta alla donna che chiede di essere risarcita la prova dei fatti costituitivi della pretesa azionata – id est, che l’informazione omessa avrebbe provocato un processo patologico tale da determinare un grave pericolo per la sua salute, e, in stretta connessione, che, nella situazione ipotetica data, ella avrebbe effettivamente optato per l’interruzione della gravidanza – è che il rischio della mancanza o della insufficienza del quadro probatorio acquisito andrà a suo carico.

In tale contesto, e pur nella consapevolezza che nella prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo per contro sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità e di probabilità (confr. Cass. civ. 31 ottobre 2011, n. 22656), appare opportuno precisare che la stessa richiesta di accertamento diagnostico e anche di più accertamenti diagnostici, ove non espressamente funzionalizzati alla verifica di eventuali anomalie del feto, è, al postutto, un indice niente affatto univoco della volontà di avvalersi della facoltà di sopprimerlo, ove anomalie dovessero emergere, innumerevoli essendo le ragioni che possono spingere la donna ad esigerli, e il medico a prescriverli, a partire dalla elementare volontà di gestire al meglio la gravidanza, pilotandola verso un parto che, per le condizioni, i tempi e il tipo, sia il più consono alla nascita di quel figlio, quand’anche malformato.

Resta peraltro fermo che la verifica dell’esistenza o meno, all’epoca dell’assunto diritto all’interruzione della gravidanza, del grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, va condotto con giudizio ex ante, di talchè ciò che si è effettivamente verificato successivamente può avere solo valore indiziario o corroborativo, ma non decisivo (confr. Cass. civ. 29 luglio 2004, n. 14488).

14 Venendo al caso di specie, ritiene la Corte che degli esposti principi, pur astrattamente ribaditi nella sentenza impugnata, il giudice di merito ha poi fatto, in concreto, malgoverno.

La negativa valutazione in ordine all’impatto della notizia della malformazione del feto sulle condizioni psichiche della G., nel senso della insussistenza di elementi che consentissero di ipotizzare, seppure in termini di mera probabilità, l’insorgere di un processo patologico consistente in un grave pericolo per la sua salute mentale, è stata infatti espressa sulla base dell’asciutta considerazione dello stato della madre prima e dopo la gravidanza, senza alcuna considerazione di altri elementi decisivi, a partire dalla gravità delle patologie del nascituro, che interagendo con la propensione a una procreazione fortemente desiderata, ma cosciente e responsabile, bene avrebbero potuto scatenare conflitti e scompensi psicocomportamentali severi. E del pari del tutto apodittica è la rilevata assenza di elementi indicativi della concreta volontà di abortire della donna, considerato che anche il rifiuto di sottoporsi ad amniocentesi, per i rischi ad essa connessi, è indice estremamente ambiguo, allorchè venga espresso in un contesto diagnostico non allarmante, di talchè la percezione del pericolo di danneggiare inutilmente un feto sano è ragionevolmente più forte del timore di mettere al mondo un bimbo gravemente malato.

15 Quanto sin qui detto agevola l’esposizione delle ragioni della ritenuta fondatezza anche delle critiche svolte nel terzo motivo di ricorso. A fronte di un onere probatorio oggettivamente difficile – in quanto volto a dimostrare non già quel che si è nei fatti verificato, ma quel che si sarebbe presumibilmente verificato, ove il medico avesse adempiuto alla sua obbligazione – il rifiuto di generalizzazioni di tipo statistico non può non accompagnarsi all’acquisizione, nel singolo processo, di ogni elemento probatorio che, a prescindere dal saggio apprezzamento che dei relativi esiti farà poi il decidente, consenta di valutare la sussistenza o meno di convincimenti etici aprioristicamente contrari a un intervento abortivo. Ne deriva che la secca valorizzazione della posteriorità dell’episodio sul quale i testi avrebbero dovuto riferire, rispetto all’epoca della gestazione della G., è criterio inappagante e indicativo di una conduzione dell’istruttoria censurabilmente indisponibile all’acquisizione di tutti gli indizi idonei alla ricostruzione dell’ipotetico evolversi della vicenda dedotta in giudizio.

16 Parzialmente fondato è anche il quinto motivo di ricorso, che conviene qui esaminare in precedenza, rispetto al quarto. Non v’ha dubbio che il primo bersaglio dell’inadempimento del medico è il diritto dei genitori di essere informati, al fine, indipendentemente dall’eventuale maturazione delle condizioni che abilitano la donna a chiedere l’interruzione della gravidanza, di prepararsi psicologicamente e, se del caso, anche materialmente, all’arrivo di un figlio menomato. E la richiesta dei corrispondenti pregiudizi deve ritenersi consustanzialmente insita nella domanda di risarcimento dei danni derivati dalla nascita, quali il danno biologico in tutte le sue forme e il danno economico, che di quell’inadempimento sia conseguenza immediata e diretta in termini di causalità adeguata (confr. Cass. civ. 1 dicembre 1998, n. 12195).

17 Altrettanto non può dirsi, invece, in ordine ai pregiudizi asseritamente subiti dal figlio e dai suoi genitori, per non avere beneficiato di adeguati e tempestivi interventi atti a migliorare, o quanto meno a non aggravare il gravissimo handicap dal quale è risultato affetto il bambino.

Trattasi invero di questione assolutamente nuova, in quanto completamente ignorata nella sentenza impugnata. Ne deriva che i ricorrenti avrebbero dovuto dedurre e dimostrare, con la precisione richiesta dall’osservanza del criterio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, che essa era già compresa nel thema decidendum del giudizio di appello. Nell’assenza di qualsivoglia allegazione al riguardo, ogni considerazione in ordine alla correttezza, in parte qua, della valutazione del giudice di merito è irrimediabilmente preclusa.

18 La cassazione della sentenza impugnata che si va ad operare, per le ragioni e nei limiti sin qui indicati, consente di ritenere assorbito il quarto motivo di ricorso, con il quale gli impugnanti hanno lamentato la totale pretermissione – evidentemente dovuta a un errore materiale – della domanda risarcitoria svolta dal padre, essendosi il giudice di merito occupato, sia pure per rigettarla, soltanto di quella avanzata dalla madre.

19 Assorbito è infine anche il ricorso incidentale condizionato proposto dal C. Nel giudizio di cassazione non trova invero applicazione il disposto dell’art. 346 c.p.c., relativo alla rinuncia alle domande ed eccezioni non accolte in primo grado, di talchè sulle questioni esplicitamente o implicitamente dichiarate assorbite dal giudice di merito, come, nella fattispecie, le asserite responsabilità dei sanitari della Azienda USL (OMISSIS), non si forma il giudicato implicito, ben potendo le suddette questioni, in caso di accoglimento del ricorso, essere riproposte e decise nell’eventuale giudizio di rinvio. Ne deriva che il resistente non aveva alcuna necessità di farle valere in sede di legittimità (confr. Cass. civ. 12 settembre 2011, n. 18677; Cass. civ. 24 gennaio 2011, n. 1566).

20 In definitiva, accolto, per quanto di ragione, il ricorso principale, dichiarato assorbito il ricorso incidentale, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie nei limiti di cui in motivazione il ricorso principale; dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione.

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