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A seguito della recente riforma dell’ordinamento forense introdotta dalla L. 247/12 sono sorti una serie di dubbi interpretativi in relazione ad alcuni punti “critici” della normativa e, in particolare, sul cd. patto di quota lite.

Come noto, fino a pochi anni fa, vigeva in Italia il divieto del patto di quota lite, secondo quanto disposto dall’articolo 2233 comma 3 c.c.: “Gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni”.

Successivamente, con la cd. Legge Bersani, si è provveduto a modificare il terzo comma dell’art. 2233 c.c., che infatti oggi recita: “sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali”.

Tale mutato quadro normativo ha reso altresì necessario modificare il Codice deontologico forense, il cui art. 45, rubricato appunto “accordi sulla definizione del compenso”, consente all’avvocato la pattuizione con il cliente di compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, “fermo il divieto dell’articolo 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta, fermo il principio disposto dall’articolo 2233 c.c.”.

Ora, l’art. 13, comma 4, della L. 247/12, prevede espressamente che “Sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa”.

Qual è quindi il significato del dettato legislativo? E’ ancora valido il patto di quota lite?

Per rispondere a tale quesito occorre, come spesso accade, fare un passo indietro e guardare la riforma nel suo complesso.

Così facendo, si scopre come il terzo comma dell’art. in questione preveda la facoltà per l’avvocato di pattuire i propri compensi professionali sulla base di vari criteri, tra cui, per quanto qui interessa, quello “a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene”.

A meno di non voler configurare una palese contraddizione tra i due commi, sembra quindi potersi sostenere la tesi della validità dei patti sui compensi che siano parametrati ai risultati conseguiti, aventi ad oggetto, non una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa (stante il divieto del comma 4), bensì una percentuale del valore del bene controverso o del bene stesso.

In altre parole, ciò che è vietato è l’accordo tra avvocato e cliente, con cui si realizzi, in via diretta o indiretta, la cessione del credito o del bene litigioso, contravvenendo, quindi, al divieto posto dall’articolo 1261 c.c..

Per ciò che concerne, invece, in generale, i compensi professionali, il secondo comma dell’art. 13 prevede il principio base, secondo cui l’onorario dell’Avvocato viene di regola pattuito per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico, tenuto conto della complessità della pratica e, nel caso di giudizio, dei costi e della durata prevedibili.

Tuttavia, dovranno essere utilizzati i parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della Giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, nei seguenti casi:

  1. se all’atto dell’incarico o successivamente il compenso non è stato determinato per iscritto;

  2. in ogni caso di mancata determinazione consensuale;

  3. in caso di liquidazione giudiziale;

  4. nei casi in cui la prestazione professionale viene resa nell’interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla Legge.

Inoltre, secondo l’art. 13, comma 10, oltre al compenso per la prestazione professionale, all’avvocato sono dovuti, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale:

1) il rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell’interesse del cliente;

2) una somma per il rimborso delle spese forfetarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive.

Infine, l’ottavo comma della disposizione in esame prevede espressamente la regola della solidarietà nel pagamento delle spese e degli onorari degli Avvocati nel caso di raggiunta transazione: “Quando una controversia oggetto di procedimento giudiziale o arbitrale viene definita mediante accordi presi in qualsiasi forma, le parti sono solidalmente tenute al pagamento dei compensi e dei rimborsi delle spese a tutti gli avvocati costituiti che hanno prestato la loro attività professionale negli ultimi tre anni e che risultino ancora creditori, salvo espressa rinuncia al beneficio della solidarietà”.

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