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Esiste un limite al diritto di satira? Qual è il punto oltre il quale l'esercizio di tale diritto diventa abuso?

Mentre al primo interrogativo non può che rispondersi affermativamente, il secondo, invece, crea maggiori problematiche.

Mai come in quest'ambito la divergenza (forse sarebbe meglio dire la sclerotizzazione) delle posizioni dipende esclusivamente dal ruolo ricoperto: chi fa satira tende a porre dei limiti molto elastici (e, secondo alcuni, solo di principio e in concreto mai applicabili), mentre chi subisce la “gogna mediatica” tende spesso ad abbassare troppo l'asticella, fino ad arrivare a coloro che, in sostanza, vorrebbero mettere il cd. “bavaglio” ai comici e ai giornalisti.

Il caso. L'ultimo capitolo della serie riguarda un noto uomo politico italiano, oggetto di una serie di articoli considerati dallo stesso diffamatori su uno dei settimanali nazionali di approfondimento più venduti.

Il Tribunale di Roma accoglieva parzialmente la domanda, con riferimento ad uno solo degli articoli in questione, dal titolo “L'era dello scarabeo stercorario”.

In appello, invece, la sentenza veniva riformata, in quanto, a parere dei giudici del gravame, la domanda “non poteva essere frazionata con riferimento ai singoli articoli di stampa dedotti, in quanto l'attore non aveva agito per il risarcimento del danno da reato di diffamazione, bensì per lesione dei beni costituzionalmente protetti, quali il nome e l'immagine. In altri termini, “nella prospettazione fornita dall'attore, la menzione dei singoli articoli era strumentale all'esercizio di un'unica azione per una condotta attuata mediante più azioni collegate tra loro da un medesimo intento illecito”, senza alcuna domanda subordinata tendente ad ottenere il risarcimento dei danni per ogni singolo articolo separatamente considerato. Di conseguenza, per un verso, il primo giudice aveva pronunziato extra petita e, per altro verso, il P. aveva operato una illecita mutatio libelli allorquando, in appello, aveva indicato quale causa petendi il danno subito per il reato di diffamazione integrato dai singoli articoli”.

La decisione. La Suprema Corte, con la sentenza n. 1753/12 ha cassato la decisione di secondo grado, ritenendo che la menzione dei singoli articoli non sia affatto “strumentale” all'esercizio di un'unica azione per una condotta attuata mediante più azioni collegate tra loro da uno stesso intento illecito.

Gli Ermellini, infatti, hanno statuito che dall'atto introduttivo si evince chiaramente come la domanda, pur facendo riferimento ad una campagna diffamatoria, contenga l'esplicita disamina di ogni singolo articolo, con l'indicazione dei motivi per i quali è da considerarsi diffamatorio, sia singolarmente, sia come parte del fatto illecito nel suo complesso.

Per quanto concerne, in specifico, l'articolo di cui sopra, i giudici di legittimità hanno ribadito che “la satira costituisce una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica e può realizzarsi anche mediante l'immagine artistica come accade per la vignetta o per la caricatura, consistenti nella consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali delle persone ritratte”.

Hanno altresì precisato come “diversamente dalla cronaca, la satira è sottratta al parametro della verità in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su un fatto ma rimane assoggettata al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito. Conseguentemente, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall'opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato. Non può, invece, essere riconosciuta la scriminante di cui all'art. 51 cod. pen. nei casi di attribuzione di condotte illecite o moralmente disonorevoli, di accostamenti volgari o ripugnanti, di deformazione dell'immagine in modo da suscitare disprezzo della persona e ludibrio della sua immagine pubblica (cfr. Cass. n. 28411/08 ed, in precedenza, n. 23314/07, n. 7091/01, n. 14485/00, n. 4993/96)”.

In altri termini, la giurisprudenza di legittimità, ancora una volta, ha ritenuto che la satira è legittima quando mira a screditare il personaggio pubblico per le sue condotte, ma se essa diventa mera occasione per insultare o umiliare una persona per le sue caratteristiche e qualità personali, allora si oltrepassa il limite della libera manifestazione del pensiero, sotto il profilo della continenza, e non vi è più un equo contemperamento con l'altrettanto fondamentale diritto del rispetto dell'onore e del decoro della persona.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 19 dicembre 2011 – 8 febbraio 2012, n. 1753

(Presidente Petti – Relatore Spirito)

Svolgimento del processo

Il P. citò in giudizio la “Gruppo Editoriale l'E.” spa, lo S., il F. e la R. per il risarcimento dei danni che sosteneva essergli derivato dalla pubblicazione di una serie di articoli giornalistici sul quotidiano (omissis) o nel supplemento (omissis). Il Tribunale di Roma accolse parzialmente la domanda, con riferimento ad uno solo degli articoli in questione (quello pubblicato il (omissis) sul menzionato supplemento, dal titolo “L'era dello scarabeo stercorario”).

Impugnata da ambedue le parti la sentenza, la Corte d'appello di Roma ha respinto la domanda del P., ritenendo che questa fosse rivolta all'insieme delle condotte descritte come “campagna stampa denigratoria”, ritenuta dall'attore lesiva del diritto alla personalità, e non alla potenzialità offensiva dei singoli articoli. Quanto, poi, allo specifico articolo in relazione al quale il primo giudice aveva ritenuto la responsabilità dei convenuti, il giudice d'appello ha stabilito che, “in ogni caso”, esso era stato redatto con intento satirico e non diffamatorio. Il ricorso per cassazione del P. è svolto in due motivi. Risponde con controricorso la controparte, che propone ricorso incidentale condizionato mediante tre motivi.

Motivi della decisione

I ricorsi devono essere riuniti, siccome proposti contro la medesima sentenza.

Il ricorso incidentale condizionato

Il ricorso incidentale, benché proposto in via condizionata all'accoglimento del principale, deve essere trattato per primo, siccome pone questioni pregiudiziali di rito (Cass. SU n. 212/01).

Attraverso il primo motivo i ricorrenti sostengono che il processo si sarebbe estinto per non essere stato riassunto nel termine semestrale (di cui all'art. 305 c.p.c. nel testo precedente alla modifica di cui alla legge n. 69 del 2009) decorrente dalla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell'atto di fusione per incorporazione della “Editoriale La R.” spa nel “Gruppo Editoriale l’E.” spa, anziché (come ha ritenuto la sentenza impugnata) dal momento in cui la parte ha avuto la conoscenza processuale dell'evento interruttivo.

Il motivo è infondato, siccome la sentenza s'è adeguata al consolidato orientamento giurisprudenziale in ragione del quale a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 139 del 1967, n. 178 del 1970, 159 del 1971 e n. 36 del 1976, il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto per la morte del procuratore costituito di una delle parti in causa decorre non già dal giorno in cui si è verificato l'evento interruttivo, bensì da quello in cui una delle parti abbia avuto di tale evento conoscenza legale, mediante dichiarazione, notificazione o certificazione, non essendo sufficiente la conoscenza “aliunde” acquisita (tra le più recenti, cfr. Cass. n. 3085/10).

Attraverso il secondo motivo i ricorrenti criticano la sentenza, sotto il profilo del vizio della motivazione, per avere omesso di pronunziarsi in ordine ad un ulteriore aspetto dell'eccezione d'estinzione del giudizio, in relazione alla specifica posizione dello S., del F. e della R., ai quali l'atto di riassunzione sarebbe stato notificato presso il domicilio eletto nella comparsa di costituzione e risposta “nulla e come tale priva di giuridico effetto”.

Il motivo è inammissibile, in quanto i ricorrenti avrebbero dovuto svolgere la censura non sotto il profilo del vizio della motivazione, bensì sotto quello dell'omessa pronunzia (artt. 360, n. 4, 112 c.p.c.), facendo riferimento all'atto ed al tempo processuale in cui la questione stessa sia stata inutilmente sottoposta all'esame del giudice. Consentendo in tal modo alla Corte di legittimità di accedere agli atti del processo e delibare la critica.

Il terzo motivo concerne il punto della sentenza che ha respinto l'eccezione di nullità dell'atto di citazi

one introduttivo del giudizio di primo grado. La questione, rubricata sotto il profilo della violazione di legge e del vizio della motivazione, è posta con riferimento all'art. 163 n. 4 c.p.c., e basa sul fatto che doveva essere considerata inammissibile la domanda del P. di condanna solidale avanzata nei confronti di soggetti “che non erano ed in nessun caso potevano essere ritenuti responsabili in solido per la campagna di stampa, anche considerando l'assenza di qualsiasi prova sul collegamento delle condotte…” (cfr. il ricorso a pagg. 67 e 68).

Anche in questo caso occorre osservare che i ricorrenti avrebbero dovuto porre la questione sotto il profilo della nullità del processo (art. 360 n. 4 c.p.c.) e che, inoltre, la disposizione processuale alla quale è fatto riferimento impone che la citazione contenga l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, mentre il motivo di ricorso in trattazione pone questioni che concernono il merito della vicenda (l'esistenza o meno di una responsabilità solidale dei convenuti).

IL RICORSO PRINCIPALE

Come s'è accennato nella parte espositiva di questa sentenza, il provvedimento impugnato (riformando la prima sentenza anche con riferimento all'unico articolo che il primo giudice aveva ritenuto generatore di responsabilità a carico dei convenuti) ha respinto del tutto la domanda del P. sul presupposto che questa non poteva essere frazionata con riferimento ai singoli articoli di stampa dedotti, in quanto l'attore non aveva agito per il risarcimento del danno da reato di diffamazione, bensì per lesione dei beni costituzionalmente protetti, quali il nome e l'immagine. In altri termini, “nella prospettazione fornita dall'attore, la menzione dei singoli articoli era strumentale all'esercizio di un'unica azione per una condotta attuata mediante più azioni collegate tra loro da un medesimo intento illecito”, senza alcuna domanda subordinata tendente ad ottenere il risarcimento dei danni per ogni singolo articolo separatamente considerato. Di conseguenza, per un verso, il primo giudice aveva pronunziato extra petita e, per altro verso, il P. aveva operato una illecita mutatio libelli allorquando, in appello, aveva indicato quale causa petendi il danno subito per il reato di diffamazione integrato dai singoli articoli.

Il primo motivo del ricorso principale, che censura tale punto della sentenza per violazione di legge, nullità della sentenza per omessa pronunzia e vizio della motivazione, è fondato.

Il ricorrente trascrive nel motivo in esame (cfr. da pag. 7 a pag. 13) una serie di passi dell'atto introduttivo dai quali s'evince in maniera inequivocabile: che la domanda era rivolta a conseguire il risarcimento del danno per comportamenti dei convenuti aventi natura di reato, con particolare ed esplicito riferimento ai delitti di diffamazione, di ingiuria e di calunnia; che la domanda stessa, pur facendo riferimento ad una campagna diffamatoria ordita dalla controparte, non ometteva di procedere all'esposizione del contenuto di ognuno dei dodici articoli in questione e di rimarcare per ciascuno di essi la potenzialità offensiva, sia esaminati nell'insieme, sia nell'individualità; che la domanda faceva riferimento ad una responsabilità solidale o disgiunta dei convenuti; che la domanda conteneva un esplicito riferimento alla legge sulla stampa ed alla specifica sanzione pecuniaria prevista.

Sono tutte circostanze che portano a ritenere che il giudice abbia omesso di pronunciare sulla domanda, adottando, altresì, una motivazione per un verso incongrua e, per altro verso, insufficiente.

È incomprensibile, infatti, l'affermazione secondo cui sarebbe da escludere che sia stata proposta una domanda risarcitoria “per ogni articolo separatamente considerato, poiché nessuno degli articoli sarebbe stato sufficiente a cagionare l'enorme danno rappresentato dall'attore e posto alla base di una domanda di risarcimento per L. 15.000.000.000”. Basti considerare in proposito che l'attore (soprattutto quando agisce, come nel caso, per il risarcimento del danno non patrimoniale, soggetto a valutazione equitativa) è libero di porre un limite massimo o minimo alla quantificazione del danno stesso, facendo riferimento ad una somma complessiva che riguardi tutti gli atti assunti come dannosi, oppure a singole somme ritenute di per sé congrue rispetto a ciascuno degli atti stessi. E, soprattutto, facendo riferimento alla stima che egli ripone nella onorabilità, nella dignità e nella professionalità proprie. Sicché, l'enorme importo risarcitorio richiesto non è di per sé indicativo del fatto che l'attore abbia agito non con riferimento a singoli articoli, bensì ad una condotta complessiva che dagli stessi prescinda. Ma, volendo spingere ancora più a fondo l'analisi della motivazione adottata, non può farsi a meno di osservare che appare illogico rivolgere l'indagine verso una condotta complessiva ed unitaria, senza tener conto che l'attore la deduce attraverso l'esposizione di una serie di condotte ciascuna di per sé ritenute illecite e, dunque, generatrici di responsabilità. Sicché, il fatto che egli abbia rivolto l'attenzione del giudicante ad un ulteriore elemento unificante le singole condotte non comporta che abbia rinunziato a far valere in giudizio il “meno”, costituito da ciascuno dei singoli pregiudizi.

Passando al secondo motivo – che attiene al giudizio relativo all'articolo del (omissis) (“(omissis) “) – anch'esso è fondato. Il ricorrente riproduce brani essenziali di quell'articolo, dolendosi del vizio della motivazione e della violazione di legge.

In ordine al menzionato articolo, la sentenza impugnata ribadisce (per le già esposte ragioni) che il primo giudice non poteva frazionare la domanda e valutare la potenzialità diffamatoria di ciascun articolo. Poi aggiunge che “in ogni caso” l'articolo non cagionava danno in quanto avente natura dichiaratamente satirica.

Riguardo a questa seconda ragione del decidere occorre ribadire che la satira costituisce una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica e può realizzarsi anche mediante l'immagine artistica come accade per la vignetta o per la caricatura, consistenti nella consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali delle persone ritratte. Diversamente dalla cronaca, la satira è sottratta al parametro della verità in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su un fatto ma rimane assoggettata al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito. Conseguentemente, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall'opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato. Non può, invece, essere riconosciuta la scriminante di cui all'art. 51 cod. pen. nei casi di attribuzione di condotte illecite o moralmente disonorevoli, di accostamenti volgari o ripugnanti, di deformazione dell'immagine in modo da suscitare disprezzo della persona e ludibrio della sua immagine pubblica (cfr. Cass. n. 28411/08 ed, in precedenza, n. 23314/07, n. 7091/01, n. 14485/00, n. 4993/96).

In altri termini, la giurisprudenza ha tenuto conto della funzione essenziale svolta dalla satira di controllo sociale e di protezione contro gli eccessi del potere, pur non dimenticando di rilevare che essa deve arrestarsi rispetto a valori e beni fondamentali tutelati in via costituzionale; quando, cioè, l'attacco miri a screditare il personaggio pubblico non per le sue criticate azioni ma per le sue caratteristiche e qualità personali. In questo è il limite più ampio di continenza rispetto all'ordinario diritto di critica.

Venendo al punto in questione, la motivazione della sentenza impugnata non offre ragioni a sostegno della ritenuta scriminante. Essa si limita ad enunciare principi generali in tema di diritto alla satira e generici cenni in ordine alla vicenda oggetto del testo, ma senza nessun concreto e specifico riscontro con il testo dell'articolo controverso (principalmente con i brani trascritti nel motivo di ricorso in trattazione) e soprattutto senza spiegare perché, in questo caso, il diritto di satira scrimini il reato e prevalga sui diritti fondamentali della persona, dei quali lo stesso giudice ha dimostrato di avere così chiara contezza nella parte introduttiva della motivazione.

CONCLUSIONI

In conclusione, respinto il ricorso incidentale condizionato, il ricorso principale va accolto in entrambi i motivi, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla stessa Corte d'appello in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta l'incidentale condizionato, accoglie il principale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, anche perché provveda sulle spese del giudizio di cassazione.

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