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La presupposizione, secondo i più accreditati orientamenti della dottrina, ricorre quando una determinata situazione, di fatto o di diritto, di carattere obiettivo possa, pur in mancanza di una specifica pattuizione, considerarsi come presupposto comune avente valore determinante ai fini del permanere del vincolo contrattuale.

La presupposizione, non espressamente regolata dal codice civile, assume rilevanza nel momento in cui la situazione presupposta venga meno o non si realizzi, per fatto non imputabile alle parti.

In tal caso, sulla base di un orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, cristallizzato in Cass. Civ. n. 6631 del 2006, l’assetto dato dalle parti ai loro rispettivi interessi verrebbe a trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata convenuta l’operazione negoziale, così da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi dell’articolo 1467 cod. civ.. (Nella specie, si trattava della risoluzione di un contratto di affitto di un mulino, sulla base del fatto che a causa dell’erosione del letto del fiume, si era creato un dislivello tale, rispetto alla originaria imboccatura del canale, da rendere questo non più adatto a captare l’acqua dal fiume).

Di diverso avviso, invece, Cass. Civ., n. 12235 del 2007, in cui si afferma che: la presupposizione, non attenendo all’oggetto, né alla causa, né ai motivi del contratto, consiste in una circostanza ad esso “esterna”, che pur se non specificamente dedotta come condizione ne costituisce, specifico ed oggettivo presupposto di efficacia, assumendo per entrambe le parti, o anche per una sola di esse – ma con riconoscimento da parte dell’altra -, valore determinante ai fini del mantenimento del vincolo contrattuale, il cui mancato verificarsi legittima l’esercizio del recesso.

Merita, inoltre, una menzione la posizione sostenuta in Cass. Civ. n. 16315 del 2007, in cui si è ricondotto il venir meno della situazione presupposta al difetto sopravvenuto di interesse creditorio di cui all’art. 1174 c.c.

Ricordiamo, infatti, che ai sensi della disposizione citata, la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere a un interesse anche non patrimoniale, del creditore.

La Cassazione, ha, così, ritenuto che nel contratto di viaggio vacanza “tutto compreso” (c.d. “pacchetto turistico” o “package”), disciplinato attualmente dagli artt. 82 ss. D.Lgs. n. 206 del 2005 (c.d. “codice del consumo”).. la “finalità turistica” connota la sua causa concreta ed assume rilievo, oltre che come elemento di qualificazione, anche relativamente alla sorte del contratto, quale criterio di relativo adeguamento, con la conseguenza che, nell’economia funzionale complessiva di detto contratto, l’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del consumatore creditore per causa a lui non imputabile, pur se normativamente non specificamente prevista, è da considerarsi causa di estinzione dell’obbligazione, autonoma e distinta dalla sopravvenuta totale (di cui all’art. 1463 c.c.) o parziale (prevista dall’art. 1464 c.c.) impossibilità di esecuzione della medesima.

Le due posizioni minoritarie (recesso ovvero estinzione della prestazione per sopravvenuto difetto di interesse), ad avviso di chi scrive, non sembrano, tuttavia, idonee a superare l’orientamento dominante secondo cui il venir meno della situazione presupposta legittima la proposizione dell’azione di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Tale conclusione appare avvalorata da una recente pronuncia della Cassazione (Sent. n. 10899 del 2010), con cui si è ribadita l’operatività della risoluzione ex art. 1467, affermandosi che la presupposizione, o meglio la condizione non svolta ma tenuta presente dagli originar contraenti, per la quale il contratto ebbe a fondarsi sulla base dell’indicata “situazione di fatto” assurta a presupposto della volontà negoziale, ove venga a mancare comporta appunto la caducazione del contratto stesso.

 

 

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