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Si ha stabile organizzazione di una società straniera in Italia quando questa abbia affidato, anche di fatto, la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura munita o no di personalità giuridica.

Lo ha stabilito la Cassazione Penale, con la Sentenza n. 20678 del 29 maggio 2012, con cui ha ammesso la configurabilità del delitto di cui all’art. 5 D.lgs 74/2000 (omessa dichiarazione IVA) in capo ad una società di San Marino.

La società in questione aveva, infatti, lamentato che i giudici di merito non avessero dimostrato la sussistenza del duplice presupposto costituito dalla presenza dell’elemento materiale e di quello personale. In particolare si evidenziava come fossero del tutto assenti dei locali che potessero essere ricondotti alla società Sanmarinese.

La Cassazione, tuttavia, ha richiamato un suo precedente orientamento in base al quale la nozione di stabile organizzazione di una società straniera in Italia va desunta dall’art. 5 del modello di convenzione OCSE contro la doppia imposizione e dal suo commentario, integrata con i requisiti prescritti dall’art. 9 della sesta direttiva CEE n. 77/388 del Consiglio del 17 maggio 1977 per l’individuazione di un centro di attività stabile, il quale, così come definito dalla giurisprudenza comunitaria, consiste in una struttura dotata di risorse materiali e umane, e può essere costituito anche da un’entità dotata di personalità giuridica, alla quale la società straniera abbia affidato anche di fatto la cura di affari (con l’esclusione delle attività di carattere meramente preparatorio o ausiliario, quali la prestazione di consulenze o la fornitura di “know how (Cass. Pen. n. 29724/2010).

Pertanto, ha desunto la sussistenza della “stabile organizzazione” nel senso anzidetto dalla continuità della gestione imprenditoriale di un’attività di produzione di capi di abbigliamento affidata a laboratori esterni ed attuata in Italia attraverso ditte individuali tutte riconducibili ad un unico soggetto che, peraltro, è stato ritenuto essere “amministratore di fatto” della società Sanmarinese.

La questione della esatta determinazione della “stabile organizzazione” è certamente una delle più dibattute problematiche giuridiche degli ultimi anni, specialmente alla luce dell’internazionalizzazione delle imprese e dello sviluppo delle nuove tecnologie. In questo senso la citata Sentenza della Suprema Corte ha il pregio di fornire utili criteri guida per l’interprete laddove attribuisce rilevanza anche all’affidamento di attività economiche ad entità dotate o meno di personalità giuridica.

Interessante, sul punto, anche una decisione della Commissione Tributaria delle Marche del 24 giugno 2011 che aveva disconosciuto la natura di “stabile organizzazione” in capo a una società italiana, controllata da una società non residente, in ragione della sproporzione tra le dimensioni dell’attività di gruppo e l’esiguità del “corredo umano e tecnico” sussistente in Italia a disposizione della capogruppo estera, mentre, al contempo, la aveva parzialmente riconosciuta in ragione della presenza di un web-server che gestiva la (sola) fase della gestione degli ordini raccolti tramite il proprio portale di e-commerce.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNINO Saverio F. – Presidente

Dott. TERESI Alfredo – rel. Consigliere

Dott. LOMBARDI Alfredo M. – Consigliere

Dott. GAZZARA Santi – Consigliere

Dott. ANDRONIO Alessandro Maria – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.D. nato a (OMISSIS), indagato dei reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 5 e 11.

avverso l’ordinanza del Tribunale di Pesaro in data 7.07.2011 che ha rigettato la richiesta di riesame proposta avverso il decreto del GIP del Tribunale di Urbino 20.05.2011 che, ex art. 321, comma 2, e art. 322 ter c.p., aveva disposto il sequestro preventivo di beni di sua proprietà;

Visti gli atti, l’ordinanza denunciata e il ricorso;

Sentita nella Camera di Consiglio la relazione del Consigliere dott. Alfredo Teresi;

Sentito il PM nella persona del PG, dott. SPINACI Sante, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

Sentito il difensore del ricorrente, avv. Insolera Gaetano, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1 – Con ordinanza 7.07.2011 il Tribunale di Pesaro rigettava la richiesta di riesame proposta da G.D., indagato dei reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 5 e 11, avverso il decreto del GIP del Tribunale di Urbino in data 20.05.2011 che aveva disposto il sequestro preventivo per equivalente finalizzato alla confisca di beni di sua proprietà ex art. 321 c.p.p. comma 2, e art. 322 ter c.p..

Rilevava il Tribunale sulla base degli esiti dell’attività investigativa svolta dalla Guardia di Finanza e della copiosa documentazione fiscale e contabile acquisita che sussisteva il fumus dei reati ipotizzati e che il sequestro fosse stato legittimamente disposto ex art. 322 ter c.p., comma 2, per il richiamo fattone dall’art. 1, comma 142, della Legge Finanziaria 2008.

Quanto al fumus, osservava che l’indagato risultava essere l’amministratore di fatto e il detentore della maggioranza della Arko, s.r.l. iscritta nel registro delle imprese della Repubblica di San Marino.

Detta società operava quasi esclusivamente per conto della s.r.l.

International Promo Studio (90% del fatturato) effettuando in San Marino il controllo della qualità di tessuti che, poi, erano trasferiti in più laboratori con sede in Italia che confezionavano abiti che la Arko riconsegnava all’International Promo Studio.

I responsabili dei laboratori, escussi a s.i.t., avevano dichiarato di avere avuto rapporti con G. che, in precedenza agiva quale legale rappresentante delle ditte Tre Elle e Universal Look, correnti in Italia anche quando avevano lavorato per la società Arko.

Era, quindi, confermata l’ipotesi d’accusa, condivisa dal GIP, che l’indagato avesse costituito la Arko in San Marino allo scopo di evadere le imposte in Italia ove aveva continuato a svolgere la sua attività imprenditoriale, come confermato: a) dal fatto che il 70% delle quote di quella società era detenuto dalla figlia del G., L., e il 30% dalla società Finanziaria sammarinese s.p.a. che aveva ricevuto mandato fiduciario dal G.; b) dal rinvenimento presso l’abitazione del predetto, apparentemente mero consulente della stessa, di libri contabili e scritture della Arko (fatture; copia del carteggio attinente alla controversia tra la Arko s.r.l. e Niki confezioni s.r.l.; richieste di documenti dalla International Promo Studio alla Arko; telefax indirizzati e spediti dalla Arko alla Eagle s.r.l.; un fax inviato dalla Arko all’abitazione del G. in cui si riepilogavano le scadenze dei pagamenti relativi al mese di marzo del 2010); c) dal fatto che appena conclusi gli accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza la società Arko aveva affittato locali per 350 mq, mentre prima operava in un locale di 61 mq.

Sussisteva, secondo il tribunale, a carico del G. l’obbligo della presentazione della dichiarazione annuale ricorrendo, quanto alla violazione delle imposte ai fini dell’Iva e dell’Ires, il requisito della stabile organizzazione sia sotto il profilo personale che materiale stante che i capi d’abbigliamento erano confezionati in Italia, come dichiarato dai responsabili dei laboratori che avevano puntualizzato che il controllo della loro qualità veniva effettuata nei loro locali e che essi intrattenevano rapporti commerciali con G. come avveniva prima dell’ingresso della Arko.

Il tribunale ravvisava anche il fumus del delitto di sottrazione fraudolenta di beni dal pagamento delle imposte rilevando che, appena tre giorni dopo la cessazione degli accertamenti della Guardia di Finanza, G. aveva trasformato la società immobiliare Lalelo, s.r.l. da lui amministrata e proprietaria di tutti gli immobili facenti capo alla famiglia G., nella De.Ma., s.n.c. di Grandoni Laura & C avente quali soci G.D., la moglie S.M. e le figlie La. e Le. al fine di potere sostenere l’impignorabilità delle quote della società di persone.

Riteneva il Tribunale anche la sussistenza del periculum con la conseguente necessità di precludere all’indagato la libera disponibilità dei beni in sequestro.

2 – Proponeva ricorso per cassazione l’indagato denunciando violazione dell’art. 325 c.p.p. ; del D.P.R. n. 919 del 1986, art. 162 e dell’art. 11 reg. esec. Consiglio dell’Unione Europea n. 282 del 2011 in applicazione della Direttiva 2006/112/CE  e vizio di motivazione con riferimento al D.lgs n. 74 del 2000, art. 5 nella parte in cui era stata ritenuta sussistente la c.d. stabile organizzazione in territorio italiano della società Arko ai fini dell’imposta IVA e dell’imposta sul reddito della società (IRES) in mancanza dei presupposti normativamente previsti.

Premesso un excursus normativo e giurisprudenziale, anche comunitario, sul concetto di Stabile Organizzazione ai fini IVA che è possibile riscontrare in presenza, congiunta e concorrente, del duplice presupposto dell’elemento materiale e dell’elemento personale, il ricorrente deduceva che il tribunale non aveva indicato alcun dato in ordine all’individuazione del requisito materiale era un dato pacifico che sui suolo italiano non fosse presente alcun locale ricollegabile alla Arko o al G. e che erroneamente quello personale era stato ravvisato nel fatto che l’intero controllo di qualità da parte del G.D. avveniva in territorio italiano a nulla rilevante le asserzioni di soggetti titolari di laboratori ai quali erano state affidate le lavorazioni dei tessuti per conto di Arko perchè smentite dalla prodotta documentazione, donde la non configurabilità del reato.

Col secondo motivo il ricorrente censurava l’ordinanza de qua sotto il profilo della contraddittorietà della motivazione che aveva desunto la qualità di amministratore di fatto della società sammarinese in capo al G. in ragione del rinvenimento presso la sua abitazione di documenti contabili, dopo avere escluso che detti documenti fossero qualificabili come tali.

Col terzo motivo il ricorrente censurava l’equiparazione della qualifica di amministratore di fatto della Arko ascritta al G. a quella di amministratore di diritto ai fini della configurabilità del presupposto soggettivo richiesto per la commissione dei reati ipotizzati non essendo applicabile in via d’interpretazione analogica la clausola di equiparazione prevista dall’art. 2639 c.c. ai delitti di cui al D.lgs n. 74 del 2000, artt. 5 e 11, trattandosi di reati propri esclusivi per la cui realizzazione è richiesta la titolarità di poteri tipici di chi ha rappresentanza legale della persona giuridica-società di capitali.

Col quarto motivo l’ordinanza impugnata era denunciata nella parte in cui non aveva svolto alcuna verifica in ordine al superamento delle soglie di punibilità previste per l’integrazione della fattispecie criminosa, che sarebbero elemento costitutivo del reato.

Il sommario accertamento del superamento era radicalmente viziato dalla mancata considerazione dei costi sostenuti dalla Arko, sicchè non era quantificabile l’entità del profitto che sarebbe stato conseguito dal contribuente.

Col quinto motivo si contestava la ritenuta condotta di sottrazione fraudolenta di beni al pagamento delle imposte sia perchè la trasformazione dell’immobiliare Lalelo s.r.l. nella De.Ma s.n.c. era una condotta giustificata esclusivamente dalla necessità redistributiva del patrimonio immobiliare della famiglia nei confronti delle figlie del G. sia perchè non vi era stata alcuna diminuzione del patrimonio a lui riconducibile dato che immutata era rimasta la sua quota di patrimonio, unica a dover ricadere nella misura cautelare adottata.

Inoltre, non era configurabile il reato di cui al D.lgs n. 74 del 2000, art. 11, in ragione della capienza del patrimonio personale del G. rispetto a eventuali pretese tributarie.

Col sesto motivo si denunciava violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’estensione del sequestro preventivo anche a beni appartenenti a persone estranee al reato nell’errata presunzione che tali beni rientrassero nella sua disponibilità e senza considerare che l’acquisto dei beni dei terzi risaliva a un’epoca antecedente al periodo di commissione dei fatti contestati, sicchè non costituivano profitto del reato.

Chiedeva l’annullamento dell’ordinanza.

Motivi della decisione

3 – Col primo motivo, in cui il secondo è assorbito, il ricorrente contesta la configurabilità del delitto di cui al  D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 per l’insussistenza della c.d. stabile organizzazione in territorio italiano della società Arko ai fini dell’imposta IVA e dell’imposta sul reddito della società (IRES) difettando i presupposti normativamente previsti riconducibili alla presenza, congiunta e concorrente, del duplice presupposto dell’elemento materiale e dell’elemento personale.

Il tribunale non avrebbe indicato alcun elemento in ordine all’individuazione del requisito materiale era un dato pacifico che sul suolo italiano non fosse presente alcun locale ricollegabile alla Arko o al G. ed erroneamente quello personale era stato ravvisato nel fatto che l’intero controllo di qualità da parte del G.D. avveniva in territorio italiano a nulla rilevante le asserzioni di soggetti titolari di laboratori ai quali erano state affidate le lavorazioni dei tessuti per conto di Arko perchè smentite dalla prodotta documentazione, donde la non configurabilità del reato.

Questa sezione ha affermato sentenza n. 29724 del 26/05/2010 Cc. (dep. 28/07/2010) Rv. 248109 che in tema di IVA, la nozione di stabile organizzazione di una società straniera in Italia va desunta dall’art. 5 del modello di convenzione OCSE contro la doppia imposizione e dal suo commentario, integrata con i requisiti prescritti dall’art. 9 della sesta direttiva CEE n. 77/388 del Consiglio del 17 maggio 1977 per l’individuazione di un centro di attività stabile, il quale, così come definito dalla giurisprudenza comunitaria, consiste in una struttura dotata di risorse materiali e umane, e può essere costituito anche da un’entità dotata di personalità giuridica, alla quale la società straniera abbia affidato anche di fatto la cura di affari (con l’esclusione delle attività di carattere meramente preparatorio o ausiliario, quali la prestazione di consulenze o la fornitura di “know how”).

La prova dello svolgimento di tale attività da parte del soggetto nazionale può essere ricavata, oltre che dagli elementi indicati dall’art. 5 del modello di convenzione OCSB, anche da elementi indiziari, quali l’identità delle persone fisiche che agiscono per l’impresa straniera e per quella nazionale, ovvero la partecipazione a trattative o alla stipulazione di contratti, indipendentemente dal conferimento di poteri di rappresentanza.

Si ha stabile organizzazione di una società straniera in Italia quando questa abbia affidato, anche di fatto, la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura munita o no di personalità giuridica.

Si prescinde, quindi, dalla fittizietà o meno dell’attività svolta all’estero dalla società medesima essendo necessario accertare se essa abbia una stabile organizzazione (secondo la nozione sopra delineata) in Italia.

Il tribunale si è adeguato ai suddetti principi nel ravvisare l’esistenza di una stabile organizzazione della società Arko in Italia sussistendo, con riferimento all’IVA, entrambi i segnatati requisiti.

3.1 – Per quello materiale non è pertinente il rilievo difensivo relativo alla mancanza in Italia di locali operativi riconducibili alla Arko essendo decisiva la ritenuta, con logico supporto argomentativo, continuità della gestione imprenditoriale, in capo al G., di un’attività di produzione di capi di abbigliamento affidata a laboratori esterni attuata in Italia inizialmente con le ditte individuali Tre Elle e Universal Look, di cui era legale rappresentante, e successivamente con la s.r.l. Arco, iscritta nel registro delle imprese della Repubblica di San Marino, le cui quote erano detenute, per il 70%, dalla figlia del G., L., e per il 70% da una società finanziaria che aveva ricevuto mandato fiduciario dal G..

Tale società svolgeva attività prevalentemente per conto della società International Promo Studio col dichiarato fine di controllare la qualità dei tessuti per poi trasferirli a più laboratori operanti in Italia per il confezionamento dei capi, che venivano riconsegnati all’International Promo Studio.

Pertanto, era evidente che la Arko aveva una stabile organizzazione in Italia non soltanto per la costatata irrazionalità di un ciclo produttivo che prevedeva il transito nei locali della Arko, per il controllo di qualità, della merce lavorata in Italia e il loro successivo trasporto in Italia per essere riconsegnata alla International Promo Studio circostanza, peraltro, smentita da alcuni titolari dei laboratori che confezionavano i capi, secondo cui il controllo di qualità era direttamente eseguito durante il processo produttivo, ma perchè la produzione della merce avveniva esclusivamente sul territorio italiano per conto del G., che, sempre alla stregua dei riferimenti dei suddetti soggetti, aveva trasferito la Universal Look a San Marino continuando a gestire tutto perchè col predetto si pattuivano le tipologie dei prodotti, le modalità dei lavori da eseguire e della consegna della merce, le modalità di trasporto dei capi, i prezzi e i pagamenti.

La Arko, quindi, aveva un legame con il territorio dello Stato, essendo dotata di un’organizzazione di uomini e mezzi idonea a operare in loco in piena autonomia gestionale essendo alla stessa riferibile, tramite G., tutta l’attività inerente la gestione contabile, i rapporti con i laboratori di produzione, i pagamenti e la gestione degli automezzi, come ulteriormente confermato da ulteriori elementi quali il rinvenimento presso l’abitazione del predetto, apparentemente mero consulente, di libri contabili e scritture della Arko (fatture; copia del carteggio attinente alla controversia tra la Arko srl e Niki confezioni s.r.l.;

richieste di documenti dalla International Promo Studio alla Arko;

telefax indirizzati e spediti dalla Arko alla Eagle s.r.l.; un fax inviato dalla Arko all’abitazione del G. in cui si riepilogavano le scadenze dei pagamenti relativi al mese di marzo del 2010) e l’affitto da parte dell’Arko nel corso degli accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza di locali di 350 mq per coprire l’insufficiente ricettività di quello di 61 mq. in precedenza detenuto.

4 – Di nessun rilievo è l’asserita contraddittorietà della motivazione che aveva desunto la qualità di amministratore di fatto della società sammarinese in capo al G. anche in ragione del rinvenimento presso la sua abitazione di documenti contabili, dopo avere escluso che gli stessi fossero qualificabili come tali stante che il richiamo non era riferito al loro valore probatorio specifico, ma al dato obiettivo che documenti di pertinenza di una società estera fossero in possesso del soggetto che in Italia ne curava la stabile organizzazione.

5 – Col terzo motivo il ricorrente censura l’equiparazione della qualifica di amministratore di fatto della Arko ascritta al G. a quella di amministratore di diritto ai fini della configurabilità del presupposto soggettivo richiesto per la commissione dei reati ipotizzati non essendo applicabile in via di interpretazione analogica la clausola di equiparazione prevista dall’art. 2639 cod. civ. ai delitti di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 5 e 11, trattandosi di reati propri esclusivi per la cui realizzazione è richiesta la titolarità di poteri tipici di chi ha rappresentanza legale della persona giuridica-società di capitali contribuente.

L’assunto non è puntuale perchè il reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5) è configurabile anche nei confronti dell’amministratore di fatto Sez. 3, Sentenza n. 23425 del 28/04/2011 Ud. (dep. 10/06/2011) Rv. 250962 in forza del cosiddetto criterio funzionalistico o dell’effettività in forza del quale il dato fattuale della gestione sociale deve prevalere sulla qualifica formalmente ovviamente quando alla qualifica non corrisponda l’effettivo svolgimento delle funzioni proprie della qualifica, come avvenuto nella fattispecie.

L’equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti è stata affermata da questa Corte sia nella materia civile che in quella penale e tributaria (Cfr nella materia civile Cass. 5 dicembre del 2008 n. 28819; 12 marzo 2008, n. 6719; Sez. un. civile 18 ottobre 2005 n. 2013; in quella penale per tutte Cass. 7203 del 2008, Cass. n. 9097 del 1993 e per le violazioni tributarie cfr.

Cass. Sez. quinta civile n 21757 del 2005; Cass. pen. n. 2485 del 1995).

E’ stato ritenuto, nella citata sentenza, che il principio dell’equiparazione dell’amministratore di fatto a quello di diritto è stato recentemente recepito dal legislatore in occasione della riforma del diritto societario.

Dispone l’art. 2639 c.c. introdotto con il D.Lgs. n. 6 del 2003, che per i reati societari previsti dal titolo quindicesimo del libro quinto del codice civile al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge è equiparato chi esercita in materia continuativa i poteri previsti dalle legge.

La norma, ancorchè riferita esplicitamente ai reati societari previsti dal codice civile, contiene la codificazione di un principio generale applicabile ad altri settori penali dell’ordinamento.

Tale principio incide non solo sulla configurabilità del concorso dell’amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli omissivi propri, nel senso che autore principale del reato è proprio l’amministratore di fatto salva la partecipazione di estranei all’amministrazione secondo le regole del concorso di persone nel reato.

Muovendo da tali premesse la tesi del ricorrente, secondo il quale l’amministratore di fatto non potrebbe rispondere del reato in questione nè come autore diretto nè come concorrente, è palesemente infondata perchè in contrasto con orientamenti consolidati della dottrina e della giurisprudenza e con lo stesso dettato normativo.

Ne consegue che la Corte territoriale, attraverso un esame approfondito delle risultanze processuali e con motivazione puntuale e immune da vizi logici, ha accertato, come dianzi ritenuto, che l’indagato fosse l’amministratore di fatto.

Le censure, sollevate dal ricorrente sul punto, non tengono conto che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo.

E’ necessario, cioè, accertare se nell’interpretazione delle prove siano state applicate le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.

L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve quindi essere evidente e tale da inficiare lo stesso percorso seguito dal giudice di merito per giungere alla decisione adottata.

Anche a seguito della modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e), con la L. n. 46 del 2006, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell’iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all’annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (cfr. Cass. pen. sez. 6 n. 752 del 18.12.2006).

Anche di fronte alla previsione di un allargamento dell’area entro la quale deve operare, non cambia la natura del sindacato di legittimità; è solo il controllo della motivazione che, dal testo del provvedimento, si estende anche ad altri atti del processo specificamente indicati.

Tale controllo, però, non può mai comportare una rivisitazione dell’iter ricostruttivo del fatto, attraverso una nuova operazione di valutazione complessiva delle emergenze processuali, finalizzata a individuare percorsi logici alternativi e idonei a inficiare il convincimento espresso dal giudice di merito (Cass. Sen. sez. 2 n. 23419/2007 – Vignaroli).

Il ricorrente, attraverso una formale censura di contraddittorietà e illogicità della motivazione, ripropone sostanzialmente una diversa e per lui più favorevole lettura delle risultanze processuali.

6 – Col quarto motivo l’ordinanza impugnata è denunciata nella parte in cui non svolge alcuna verifica in ordine al superamento delle soglie di punibilità previste per l’integrazione della fattispecie criminosa, che sarebbe elemento costitutivo del reato.

Il sommario accertamento del superamento sarebbe radicalmente viziato dalla mancata considerazione dei costi sostenuti dalla Arko, sicchè non era quantificabile l’entità del profitto che sarebbe stato conseguito dal contribuente.

E’ pacifico che il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, è punito solo ove l’omissione abbia determinato una evasione di imposta pari a Euro 77,468,53, e che per imposta evasa deve intendersi l’intera imposta dovuta, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza dei dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario” Sezione 3 n. 21213 del 26/02/2008 Ud. (dep. 28/05/2008) Rv. 239983; Cass. pen. sez. 3′ n. 21213 del 26.2.2008.

Ai fini del superamento della soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche a entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario Cass. pen. sez. 3 n. 21213/2008.

Nella specie il tribunale, pur rilevando che la concreta determinazione della imposta evasa ai fini del superamento o meno della soglia di punibilità, non è verificabile nella procedura incidentale, in cui gli elementi acquisiti sono sommariamente valutati, ha asserito sussistere il superamento della soglia prevista dall’art. 5 del citato decreto.

Tale giudizio, però, non è censurabile alla stregua dell’orientamento di questa Corte Sezione 3, sentenza n. 25213 del 26/05/2011 Ud. (dep. 23/06/2011) Rv. 250656; n. 15164/2003 RV. 224453 secondo cui, quando la punibilità del fatto è subordinata alla condizione che da esso sia derivata un’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto nella specie, non inferiore a Euro 77.468,53, tale accadimento costituisce una vera e propria condizione oggettiva di punibilità, perchè non fa parte del contenuto offensivo della fattispecie e non integra elemento costitutivo dell’offesa, bensì attiene a un limite quantitativo dell’evento e non all’evento dell’omesso versamento, che è necessariamente riconducibile al dolo specifico.

E’ stato, infatti, puntualizzato che trattasi di uno di quegli accadimenti che, secondo la dottrina, arricchiscono la sfera dell’offesa del reato, perchè, pur attenendo alla sfera dell’offesa del bene protetto, tuttavia non accentrano in sè tutta l’offensività del fatto, in quanto comportano solo un ulteriore aggravamento, una progressione dell’offesa tipica: non si richiede, pertanto, nel soggetto agente la rappresentazione dell’ammontare del contributo evaso, ma la sola finalizzazione della condotta all’evasione ed il reato si perfeziona nel momento in cui la condizione si verifica, pure se essa non è voluta dall’agente medesimo.

E’, perciò, palesemente erroneo l’assunto difensivo sulla rilevanza della soglia di punibilità sul vaglio dell’offensività del reato e sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

Va, infine, ricordato che il tribunale, in sede di riesame di un provvedimento cautelare emesso per un reato tributario, non è tenuto ad accertare l’imponibile e l’imposta evasa contestata al contribuente, in quanto l’accertamento incidentale, proprio del giudizio di riesame, non prevede l’esercizio di poteri istruttori da parte del giudice della cautela. (Fattispecie in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, in cui la Corte ha precisato che il concreto accertamento della sussistenza del reato oggetto dell’imputazione provvisoria deve avvenire nel giudizio di merito) Sezione 3 n.43695 del 10/11/2011 Cc. (dep. 25/11/2011) Rv.

251329. 7 – Col quinto motivo si contesta la ritenuta condotta di sottrazione fraudolenta di beni al pagamento delle imposte sia perchè la trasformazione dell’immobiliare Lalelo s.r.l. nella De.Ma s.n.c. era una condotta giustificata esclusivamente dalla necessità redistributiva del patrimonio immobiliare della famiglia nei confronti delle figlie del G. sia perchè non vi era stata alcuna diminuzione del patrimonio a lui riconducibile dato che immutata era rimasta la sua quota di patrimonio, unica a dover ricadere nella misura cautelare adottata.

Anche tale motivo non è puntuale.

Rilevato che non costituisce motivo rilevante in sede di legittimità l’asserzione di natura fattuale sulla capienza del patrimonio personale del G. rispetto a eventuali pretese tributarie, va osservato che, sul fumus, il Tribunale ha correttamente motivato desumendo da concreti elementi fattuali, specificamente analizzati, che la trasformazione della società immobiliare a r.l., proprietaria di tutti gli immobili facenti capo alla famiglia G. in una società in nome collettivo, comprendente lo stesso G., la moglie e le due figlie, costituiva atto fraudolento commesso dall’indagato al fine di sottrarsi al pagamento dell’IVA e dell’IRES. L’operazione societaria, eseguita appena tre giorni dopo la verifica fiscale, a ragione è stata giudicata fraudolenta perchè idonea a rendere in tutto o in parte inefficace la successiva procedura di riscossione coattiva dei crediti tributari vantati dallo Stato nei confronti della società a r.l., trasformata in società in nome collettivo per la quale si ritiene, come per tutte le società di persone, che le quote dei soci non possano formare oggetto di espropriazione fino a quando non si verifichi lo scioglimento della società o del rapporto limitatamente al socio debitore (cfr. artt. 2270, 2289 e 2305 c.c.).

8- E’ inammissibile per carenza d’interesse il sesto motivo relativo all’estensione del sequestro preventivo anche a beni appartenenti a persone estranee al reato.

9 – Secondo l’orientamento di questa Corte (Sez. 5, Sentenza n. 15445 del 16/1/2004, Rv. 228750, nonchè Sez. U, Sentenza n. 41936 del 25/10/2005 ric. Muci, Rv. 232164) presupposti per la legittima applicazione della misura sono i seguenti: la persona raggiunta dalla misura cautelare reale deve essere indagata per uno dei reati per i quali sia poi consentita la confisca per equivalente o confisca di valore; nella relativa sfera giuridico – patrimoniale non sia rinvenuto, per una qualsivoglia ragione, il prezzo o profitto del reato per cui si proceda, ma di cui sia ovviamente certa l’esistenza;

i beni da sequestrare non devono appartenere a persona estranea al reato, condizione questa comune a tutte le ipotesi di confisca di cui al menzionato art. 322 ter cod. pen..

La misura cautelare impugnata prescinde da qualsiasi collegamento eziologico tra beni confiscabili e lo specifico reato contestato.

Il nesso di pertinenzialità che deve, ordinariamente, legittimare il sequestro preventivo, nel caso di specie non è richiesto o, meglio, si pone a monte e riguarda il rapporto tra l’ipotizzato prezzo o profitto del reato e la stessa fattispecie delittuosa per cui si procede.

Il presupposto e la stessa ragion d’essere del sequestro per valore risiedono poi nel fatto che quel prezzo o profitto non sia rinvenuto ed il mancato rinvenimento autorizza la misura cautelare su un qualsiasi bene dell’indagato, diverso, per definizione, da quello costituente prodotto o profitto (cfr. Cass. Sez. 5, 3 luglio 2002, n. 32797).

Per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca, eventualmente anche per equivalente, e quindi, secondo il disposto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, dei beni che costituiscono prezzo e profitto del reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, nè la loro gravità, nè il “periculum” richiesto per il sequestro preventivo di cuiall’art. 321 c.p.p., comma 1, essendo sufficiente accertarne la confiscabilità una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato Cassazione Sezione 2, sentenza n. 9829 del 16/02/2006 Cc. (dep. 22/03/2006) Rv. 233373.

Il rigetto del ricorso comporta l’onere del pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

 

 

 

 

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