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Non si può frazionare la tutela giurisdizionale derivante da un unico fatto illecito

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Il caso. F.G. conveniva, davanti al tribunale di Lucca, il Comune di Lucca chiedendone la condanna al risarcimento dei danni alla persona subiti in occasione del sinistro stradale in cui aveva riportato, oltre al danno materiale al proprio ciclomotore, anche lesioni personali.

Nel ricorso faceva presente di avere già convenuto lo stesso Comune davanti al giudice di pace competente per il risarcimento dei danni materiali, riservandosi di promuovere separato giudizio per ottenere il risarcimento per le lesioni riportate.

La sentenza del giudice di pace, che riconosceva la responsabilità del Comune convenuto, con la conseguente condanna al risarcimento dei danni materiali, passava in giudicato.

Il Tribunale e la Corte d'appello rigettavano le richieste attoree, sul presupposto che da un unico fatto illecito non potevano derivare più giudizi.

La decisione. La Suprema Corte, con la pronuncia n. 28286/11, ha aderito alle tesi e alle argomentazioni espresse dai giudici di merito.

Il punto nodale della quaestio iuris sottesa alla fattispecie de qua risiede proprio nella struttura unitaria dell'illecito, le cui conseguenze dannose si erano già definitivamente verificate al momento dell'instaurarsi del primo giudizio.

Da ciò consegue come la proposizione di più cause relative al risarcimento delle singole voci di danno, derivanti dallo stesso fatto illecito, comporti una violazione del generale canone di buona fede e correttezza, operante anche in sede processuale.

Infatti, non bisogna mai dimenticare come, oltre al danneggiato, esista altresì una controparte, i cui interessi meritano “un'equilibrata tutela, senza consentirne alterazioni ad opera del danneggiato-creditore, con il prolungamento ed i costi ulteriori di una inutile duplicazione dell'azione processuale per i danni conseguenti ad unico fatto illecito”.

Tale “disarticolazione” della tutela giurisdizionale si risolve, quindi, a parere della Suprema Corte, in un abuso dello strumento processuale, che non può essere consentito nemmeno nel caso (come quello in questione) in cui il danneggiato abbia, nel primo giudizio, fatto espressa riserva di far valere ulteriori voci di danno in un successivo procedimento.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 22 dicembre 2011, n. 28286

Svolgimento del processo

F.G. conveniva, davanti al tribunale di Lucca, il Comune di Lucca chiedendone la condanna al risarcimento dei danni alla persona subiti in occasione del sinistro stradale in cui aveva riportato, oltre al danno materiale al proprio ciclomotore, anche lesioni personali.

Nel ricorso faceva presente di avere già convenuto lo stesso Comune davanti al giudice di pace competente per il risarcimento dei danni materiali, riservandosi di promuovere separato giudizio per ottenere il risarcimento per le lesioni riportate.

La sentenza del giudice di pace, che riconosceva la responsabilità del Comune convenuto, con la conseguente condanna al risarcimento dei danni materiali, passava in giudicato.

Il Tribunale di Lucca, con sentenza del 6.2.2008, rigettava la domanda.

Ad eguale conclusione perveniva la Corte d'Appello che, con sentenza del 29.4.2009, rigettava l'appello proposto dal F.

Quest'ultimo ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi illustrati da memoria.

Resiste con controricorso il Comune di Lucca.

Motivi della decisione

Il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata una volta entrato in vigore il D.Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l'applicazione, quindi, delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo 1^.

I motivi rispettano i requisiti richiesti dall'art. 366 bis c.p.c.

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. in relazione all'art. 1181 c.c., art. 1175 c.c., art. 539 c.p.p., art. 211 c.p.c. e art. 278 c.p.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3.

Il motivo non è fondato.

Diversamente da quel che sembra ritenere l'odierno ricorrente, infatti, i principi di buona fede e di correttezza, per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all'inderogabile dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., costituiscono un canone oggettivo ed una clausola generale che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma che si pone come limite all'agire processuale nei suoi diversi profili. Il criterio della buona fede costituisce, quindi, strumento, per il giudice, atto a controllare, non solo lo statuto negoziale nelle sue varie fasi, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi, ma anche a prevenire forme di abuso della tutela giurisdizionale latamente considerata, indipendentemente dalla tipologia della domanda concretamente azionata (v. ad es. Cass. 3.12.2008 n. 28719; Cass. 11.6.2008 n. 15476).

Che è ciò che si verificherebbe con il consentire la “parcellizzazione” della tutela processuale dell'azione extracontrattuale per i danni materiali e personali da circolazione stradale, davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, quando le conseguenze dannose derivanti dal fatto illecito si siano puntualmente e definitivamente verificate.

Anche in questo caso, infatti, esiste una controparte (il danneggiante) i cui interessi meritano una equilibrata tutela, senza consentirne alterazioni ad opera del danneggiato-creditore, con il prolungamento ed i costi ulteriori di una inutile duplicazione dell'azione processuale per i danni conseguenti ad unico fatto illecito.

Ed allora, una tale disarticolazione dell'unico rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, con l'aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, per essere attuata con ed attraverso il processo, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale.

Con la violazione anche della finalità deflattiva insita nella norma costituzionale dell'art. 111, per il paradosso esistente tra la moltiplicazione dei processi e la possibile limitazione della relativa durata.

Del resto, in tema di rapporto tra giudizi pendenti davanti al giudice di pace ed al tribunale, il principio della necessaria unicità del giudizio davanti al tribunale è, dall'art. 40 c.p.c., u.c., proclamato in modo espresso, anche per le domande solo connesse tra loro.

Nel caso in esame, i criteri identificativi della domanda erano gli stessi, il rapporto era identico, il fatto illecito generatore del danno era unico e le sue conseguenze dannose si erano definitivamente verificate, sia in rapporto alle conseguenze

materiali, sia a quelle personali, delle quali l'originario attore chiedeva il risarcimento.

Emerge, infatti, dagli atti che, al momento della proposizione della domanda davanti al primo giudice, l'odierno ricorrente fosse pienamente conscio anche dei danni personali conseguenti al fatto illecito (consolidamento dei postumi invalidanti – invalidità riconosciuta dall'INAIL).

In tale situazione, alla luce delle considerazioni che precedono, non è giustificabile la disarticolazione della tutela giurisdizionale richiesta mediante la proposizione di distinte domande, privilegiando la scelta del giudice di pace secondo la sua corretta individuazione per valore.

E ciò, neppure con la riserva di far valere ulteriori e diverse “voci di danno” in altro procedimento, che l'attuale ricorrente aveva inserito nella domanda proposta con il primo giudizio.

La strumentante di una tale condotta frazionata è – come già detto – evidente, ma non è consentita dall'ordinamento che le rifiuta protezione per la violazione di precetti costituzionali e valori costituzionalizzati, concretizzandosi, in questo caso, la proposizione della seconda domanda, in un abuso della tutela processuale, ostativa al suo esame.

Nè, in questo caso, può invocarsi, in senso contrario, il principio seguito dalla giurisprudenza della corte di cassazione, per il quale la riserva di far valere ulteriori danni in un autonomo giudizio, sia consentita (ad es. Cass. 30.10.2006 n. 23342; ma v. anche Cass. 22.8.2007 n. 17873; cass. 7.12.2004 n. 22987).

Per le caratteristiche del caso in esame – in cui il danno derivante dall'unico fatto illecito riferito alle cose ed alla persona si era già verificato nella sua completezza -, il consentire un uso parcellizzato della tutela processuale colliderebbe con i principi ricordati, nel mutato, ed attuale, assetto dei valori costituzionali, cui deve necessariamente ispirarsi anche il processo civile.

Correttamente, pertanto, il giudice del merito ha, sotto questo profilo, rigettato la domanda.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 11 disp. gen. (R.D. 16 marzo 1942, n. 262), art. 25 Cost., comma 2, e art. 5 c.p.c.

Anche questo motivo non è fondato.

Il ricorrente sostiene l'erroneità della sentenza impugnata, per avere rigettato l'appello sul presupposto della improponibilità della domanda, ricavata da una mutata interpretazione di principi giuridici, con effetto retroattivo: la domanda, infatti, al momento in cui era stata proposta (anno 2004), era pienamente legittima alla stregua della giurisprudenza delle Sezioni Unite.

La tesi non può essere seguita.

Il “giusto processo” espresso dalla norma dell'art. 111 Cost., come riformato con la legge costituzionale 23.11.1999 n. 2, sulla scia dei principi enunciati dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (art. 6), è principio che nella giurisprudenza della Corte di cassazione, dopo la sua emersione, ha subito una maturazione interpretativa.

Le linee che si sono così delineate sono state caratterizzate dal legame inscindibile che ha legato la “giustezza” del processo alla meritorietà della tutela giurisdizionale della situazione fatta valere dall'interessato e delle sue modalità di attuazione; di modo che una condotta che si fosse caratterizzata per l'uso strumentale del processo non avrebbe potuto trovare tutela nell'ordinamento (v. ad es. Cass. 10.10.2011 n. 20798; Cass. 10.5.2010; Cass. Ord. 3.5.2010 n. 10634; Cass. Ord. 5.2.2011 n. 2799; S.U. 14.1.2009 n. 553; Cass. 3.12.2008 n. 28719; Cass. 11.6.2008 n. 15476).

Ora, è opportuno sottolineare che il precedente delle Sezioni Unite richiamato a proprio favore dal ricorrente (S.U. 10.4.2000 n. 108) – che consentiva il frazionamento della domanda relativa ad unico rapporto obbligatorio – era stato emesso in sede di risoluzione di contrasto fra le sezioni semplici, segno questo della non univocità, nel tempo, di una tale l'interpretazione giurisprudenziale.

Ma quel che più conta è che il concetto di giusto processo, con la riforma costituzionale dell'art. 111 (anno 1999), ancora non aveva subito – per la sua recente introduzione rispetto al momento della pronuncia delle sezioni unite richiamata (2000) – quella maturazione di interpretazione conclusasi con il definitivo approdo del 2007 (S.U. 15.11.2007 n. 23726).

In sostanza, ciò che si vuol dire è che la meritorietà della tutela, nella interpretazione della Corte di cassazione, si è evoluta fino ad acquisire un ruolo determinante come ratio decidendi della controversia; nel senso che non può essere accordata protezione ad una pretesa priva di meritorietà.

Non coglie nel segno, pertanto, il riferimento, cui fa cenno il ricorrente in memoria, circa il concetto di overruling (con la cit. Cass. 17.6.2010 n. 14627), anche perchè la rimessione in termini disposta dalla Corte, – a fronte di una possibile pronuncia di inammissibilità e di improcedibilita – , in quel caso, conseguiva ad una preclusione all'esame dell'atto di impugnazione – derivante da un mutamento di orientamento interpretativo – ; preclusione non prevista al momento del deposito dell'atto.

Nè gli ulteriori precedenti in tema (Cass. ord. interl. 4.11.2011 n. 98; Cass. ord. interl. 8.6.2011 n. 12515; Cass. ord. 26.7.2011 n. 16365) sono rilevanti ai fini che qui interessano, perchè si riferiscono alle attività necessarie alla proposizione del ricorso per cassazione, e, più in generale, a norme processuali relative al giudizio di legittimità, o a norme regolanti il processo, implicanti un vizio di inammissibilità od improcedibilità dell'impugnazione.

Ma il tema dell'overruling è stato oggetto di esame anche da parte delle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità (S.U. 11.7.2011 n. 15144) la quale – con riferimento al tema qui in discussione – ha sancito che il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia (c.d. overruling), il quale porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, opera – laddove il significato che essa esibisce non trovi origine nelle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale – come interpretazione correttiva che si salda alla relativa disposizione di legge processuale ora per allora; nel senso di rendere irrituale l'atto compiuto od il comportamento tenuto dalla parte in base all'orientamento precedente.

Ora, qui non si tratta di impedire ex post l'esercizio di una tutela di cui l'ordinamento continua a ritenere la parte meritevole, quanto di non più consentire di utilizzare, per l'accesso alla tutela giudiziaria, metodi divenuti incompatibili con valori avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed equo funzionamento del servizio della giustizia.

Conclusivamente, il ricorso è rigettato.

La peculiarità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese fra le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa spese.

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