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Il settore della responsabilità professionale degli Avvocati ha visto, negli ultimi anni, un vero e proprio boom del contenzioso.

Non sempre, tuttavia, appaiono del tutto chiari i confini di tale responsabilità, per cui la giurisprudenza sta cercando di porre paletti e limiti ai fini di una migliore organicità del settore.

Il caso. L’istante citava in giudizio gli eredi del defunto Avvocato G.A., per ottenere il risarcimento dei danni sofferti per la dedotta responsabilità professionale del de cuius nell’esecuzione di un mandato professionale giudiziale conferitogli con riguardo ad una controversia di risarcimento danni da sinistro stradale, nel quale era deceduto il fratello.

Tale controversia era stata dichiarata estinta perché un atto di riassunzione da parte della P. a mezzo del suo difensore era avvenuto con notificazione soltanto nei confronti del responsabile civile e non anche nei riguardi della sua società assicuratrice per la r.c.a. La relativa sentenza non era stata appellata dalla P. – per come ha accertato la sentenza impugnata con decisione sul punto ormai non più oggetto di discussione – per responsabilità del de cuius. Donde la responsabilità professionale per la perdita da parte della P. del diritto al risarcimento del danno derivato dal sinistro.

La decisione. La Suprema Corte, con la decisione in commento, ha ritenuto sussistente la responsabilità dell’Avvocato, indipendentemente da quanto fatto in precedenza nella stessa causa in quanto attività espletata inutiliter.

Queste le parole dei Giudici di legittimità: Ne deriva che la situazione determinatasi si doveva considerare di inadempimento totale anche per le prestazioni eseguite prima della sentenza di estinzione, perché esse risultavano espletate inutiliter e, quindi, come se non fossero state espletate e ciò per colpa del de cuius, consistita nell’omissione dell’impugnazione in presenza di omessa informazione alla cliente sulla sua possibilità e nella conseguente preclusione della tutela giurisdizionale della situazione della ricorrente, con derivata perdita del diritto (ormai prescrittosi, stante il venir meno dell’effetto interruttivo permanente del corso della prescrizione, già ricollegatosi alla proposizione della domanda giudiziale)”.

Pertanto: “L’errore professionale addebitabile all’avvocato, consistente nella mancata impugnazione di una sentenza dichiarativa dell’estinzione del processo per irritualità della riassunzione dello stesso, nonché nell’omessa informazione del cliente circa le conseguenze di essa, con definitiva perdita del diritto, rende del tutto inutile l’attività difensiva precedentemente svolta dal professionista, dovendosi ritenere la sua prestazione totalmente inadempiuta ed improduttiva di effetti in favore del proprio assistito, con la conseguenza che in tal caso non è dovuto alcun compenso al professionista”.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 23 gennaio – 26 febbraio 2013, n. 4781

(Presidente Segreto – Relatore Frasca)

Svolgimento del processo

p.1. A.P. ha proposto ricorso per cassazione contro C.M.G., E.G., M.P.G. e G.P.P.L. avverso la sentenza del 24 aprile 2006, con cui la Corte d’Appello di Cagliari ha accolto per quanto di ragione sia l’appello principale degli intimati, sia quello di essa ricorrente avverso la sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Cagliari il 20 marzo 2003 sulla controversia introdotta dalla stessa ricorrente nel dicembre del 1994 contro gli intimati, nella qualità di eredi del defunto Avvocato G.A., per ottenere il risarcimento dei danni sofferti per la dedotta responsabilità professionale del de cuius nell’esecuzione di un mandato professionale giudiziale conferitogli con riguardo ad una controversia di risarcimento danni da sinistro stradale, nel quale era deceduto il fratello. Tale controversia era stata dichiarata estinta perché un atto di riassunzione da parte della P. a mezzo del suo difensore era avvenuto con notificazione soltanto nei confronti del responsabile civile e non anche nei riguardi della sua società assicuratrice per la r.c.a. La relativa sentenza non era stata appellata dalla P. – per come ha accertato la sentenza impugnata con decisione sul punto ormai non più oggetto di discussione – per responsabilità del de cuius. Donde la responsabilità professionale per la perdita da parte della P. del diritto al risarcimento del danno derivato dal sinistro.

p.2. Il Tribunale aveva riconosciuto la responsabilità professionale dei convenuti e li aveva condannati al risarcimento del danno nella misura di Euro 7.000,00 oltre interessi, con gravame delle spese di lite.

La Corte territoriale rigettava l’appello principale degli eredi in ordine alla sussistenza della responsabilità del de cuius, pur rinvenendo quest’ultima per ragioni diverse da quelle ritenute dal primo giudice. Lo accoglieva quanto alle doglianze intese ad escludere il danno patrimoniale e la ripartizione del dovuto fra gli eredi ai sensi dell’art. 752 c.c., nonché per quella relativa all’omessa pronuncia sulla domanda riconvenzionale avente ad oggetto il pagamento delle spettanze per l’attività professionale eseguita dal de cuius fino alla pronuncia della ordinanza di estinzione e lo rigettava per il resto. La Corte cagliaritana, inoltre, accoglieva parzialmente, per quanto ancora interessa, l’appello incidentale riguardo alla misura del danno non patrimoniale.

p.3. Al ricorso per cassazione hanno resistito con congiunto controricorso tutti gli intimati.

Motivi della decisione

p.1. Con il primo motivo del ricorso si deduce “violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c.) Art. 360 n. 3 c.p.c. – Omessa insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza ex art. 360 n. 5 c.p.c.”.

Vi si sostiene che la liquidazione del danno morale sarebbe stata irrisoria ed irrazionale, in quanto, pur essendo avvenuta in via equitativa, come era necessario, non avrebbe rispettato il criterio della correlazione tra entità oggettiva del danno e suo equivalente pecuniario e non avrebbe assicurato che detto equivalente, stabilito in L. 1.000.000 al momento del fatto dannoso e attualizzato in Euro 7.953,44, non sia solo apparente e simbolico. In particolare, si sostiene che la Corte di merito “venendo meno all’obbligo motivazionale che avrebbe richiesto di dar conto di avere debitamente considerato ogni elemento di fatto acquisito al processo utile ai fini della liquidazione, non ha tenuto in alcun conto della giovane età del defunto e della sorella, allora ventenni e del fatto che, all’epoca dell’incidente fossero conviventi, come risulta[va] dal certificato dell’Ufficio Anagrafe di Carbonia prodotto con le note del 26.02.2004, depositate presso la Corte di Appello di Cagliari il 02.03.2004”. La Corte territoriale, infatti, si sarebbe, invece, limitata a fare riferimento in modo del tutto apodittico “alle somme che venivano liquidate per tale causale all’epoca dei fatti” ed avrebbe tenuto conto solo che “il dolore del parente collaterale è da ritenere in genere sensibilmente minore di quello dei parenti diretti del defunto”.

In tal modo la Corte non si sarebbe attenuta al principio di diritto [che si trascrive quasi testualmente] affermato da Cass. n. 15568 del 2004, secondo cui “La liquidazione del danno morale non può essere compiuta se non con criteri equitativi, tenendo conto della gravità del reato e del patema d’animo subito dalla vittima. La concreta determinazione dell’ammontare del danno, che non può in ogni caso essere compiuta con riferimento ai valori medi adottati dall’ufficio giudiziario per casi consimili, rimane insindacabile in sede di legittimità qualora il giudice dia conto d’aver considerato questi fattori ed il giudizio sia congruente al caso (con adeguamento del danno alle singole realtà individuali in considerazione degli aspetti relazionali tra superstiti e defunto e conseguente riconoscimento ai parenti più prossimi o conviventi di un risarcimento maggiore, sul presupposto – desunto dalle comuni regole di esperienza – che quanto più stretto è il rapporto parentale tanto più intenso è il dolore, specie se al rapporto si associ la convivenza), e la determinazione non risulti palesemente sproporzionata per difetto od eccesso”.

p.1.1. Il motivo è inammissibile, perché non osserva il requisito di cui all’art. 366 n. 6 c.p.c. Si fonda, infatti, là dove invoca il ricordato principio di diritto, sulla circostanza che sarebbero state introdotte nel giudizio di appello come fatti rilevanti per la determinazione del danno de quo due elementi di fatto, la giovane età della ricorrente e del de cuius, da un lato, e la convivenza, quest’ultima per il tramite della produzione di un documento, ma in proposito:

a) si omette di indicare dove lo era stato il primo, cioè di specificare in quale atto del giudizio di appello era avvenuta l’allegazione o da dove dovesse comunque risultare negli atti per il giudice d’appello, sì da poter essere considerato nella formulazione del giudizio di liquidazione equitativa;

b) si omette, quanto al secondo sia di dire se dalla produzione si era argomentato nel senso prospettato, cioè se si era evidenziata al livello dell’onere di allegazione, la convivenza adducendola come elemento per quel giudizio, sia di indicare se e dove il documento sia stato prodotto in questa sede di legittimità.

In tal modo, risulta inosservato l’art. 366 n. 6 c.p.c. nella lettura che ne ha dato la costante giurisprudenza delle Sezioni Unite: si vedano Cass. sez. un. nn. 28547 del 2008 e 7161 del 2010, nonché, per gli atti processuali e, quindi, con riferimento alle “note”, in quanto eventualmente recanti allegazioni basate sul documento, Cass. sez. un. n. 22726 del 2011, che consente che l’indicazione specifica sia assolta per essi anche precisando se si intenda fare riferimento al fascicolo d’ufficio della fase di merito.

L’omissione dell’indicazione specifica appare tanto più rilevante, in quanto la sentenza impugnata, che pure fa riferimento espresso alla prospettazione della qui ricorrente specificandone gli assunti (pagina 15), non fa alcun riferimento a deduzioni contenute nelle dette note e ad altri elementi prospettati dalla medesima.

p.1.2. Il motivo, inoltre, sarebbe anche infondato, se lo si potesse esaminare, perché la Corte territoriale non ha fatto riferimento a quanto si liquidava all’epoca dei fatti, risalenti al lontano dicembre del 1971, per casi simili, ma ha combinato, con evidente personalizzazione della quantificazione, tale criterio con quello della parentela collaterale. Onde, la critica di inesistenza della personalizzazione e di applicazione di quanto invece relativo a casi simili non risulterebbe pertinente o comunque si sarebbe dovuta articolare con la specifica censura della correttezza in iure, anche sotto il profilo del difetto di sussunzione della concreta fattispecie, della soluzione data dalla Corte territoriale.

p.2. Con il secondo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1224 c.c.) Art. 360 n. 3 c.c. – Omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.)”.

Vi si sostiene che erroneamente la Corte territoriale avrebbe riconosciuto la rivalutazione del danno non patrimoniale fino alla pronuncia da essa resa e non invece con riferimento al successivo eventuale momento del passaggio in giudicato della sua decisione, momento che è il solo che trasforma il debito di valore risarcitorio in debito di valuta.

p.2.1. Il motivo, che, in realtà, pone soltanto una quaestio iuris, non è fondato.

Giurisprudenza risalente e costante di questa Corte afferma il principio secondo cui “nella rivalutazione dei crediti di valore, il giudice deve tener conto del diminuito potere di acquisto verificatosi dal momento del sorgere del credito fino al momento in cui, provvedendo alla liquidazione, emette la sua pronuncia, senza possibilità di considerare anche eventi futuri ed ipotetici, quali l’eventuale ritardo nell’esecuzione della sua decisione ed il verificarsi, nel frattempo, di una svalutazione monetaria ulteriore” (Cass. n. 5484 del 1980; in senso conforme successivamente: Cass. n. 4778 del 1982, n. 4791 del 1989, n. 11616 del 2001, n. 1256 del 1995, n. 3996 del 2001).

È stato anche precisato che “con riguardo al debito di valore per danno extracontrattuale che si converte in debito di valuta soggetto alle regole del cosiddetto principio nominalistico, per effetto del suo definitivo accertamento e della liquidazione che ne consegue, il tempo trascorso tra la decisione ed il deposito della sentenza che provveda a detta liquidazione comporta l’attribuzione di interessi moratori, restando il danneggiato abilitato ad agire in separato giudizio per ottenere l’ulteriore rivalutazione del suo credito ai sensi ed alle condizioni di cui all’art. 1224 cod. civ.” (Cass. n. 6336 del 1985).

Ed ulteriormente si è detto che “il principio secondo cui l’obbligo di risarcimento del danno, tanto in materia contrattuale quanto in materia extracontrattuale, costituisce un debito di valore non è più applicabile dal passaggio in giudicato della sentenza che provvede alla liquidazione, operandosi in tale momento la reintegrazione della lesione patrimoniale subita dal danneggiato con la conseguente trasformazione del debito di valore in debito di valuta e l’assoggettamento al principio nominalistico. Pertanto, dal momento della liquidazione decorrono in favore del creditore gli interessi sulla somma attribuitagli, ma cessa di operare il congegno della rivalutazione come forma di adeguamento dell’indennizzo, e può essere solo fatto valere, ma come diversa ragione di danno, il maggior pregiudizio subito per il caso di ulteriore ritardo nel pagamento della somma liquidata” (Cass. n. 1901 del 1983).

Ed ancora si è statuito che “il principio secondo cui l’obbligo di risarcimento del danno, tanto in materia contrattuale quanto in materia extracontrattuale, costituisce un debito di valore non e più applicabile dal passaggio in giudicato della sentenza che provvede alla liquidazione, operandosi in tale momento la reintegrazione della lesione patrimoniale subita dal danneggiato con la conseguente trasformazione del debito di valore in debito di valuta e l’assoggettamento al principio nominalistico. Il creditore non può, pertanto, in un successivo giudizio, pretendere la rivalutazione automatica della somma di denaro liquidata con precedente sentenza passata in giudicato, ma solo pretendere il risarcimento del danno – non coperto della corresponsione degli interessi legali – che egli dimostri di aver subito per non avere potuto tempestivamente impiegare il denaro a causa del mancato pagamento della somma dovutagli” (Cass. n. 3381 del 1980).

Alla ricordata giurisprudenza va data continuità, perché la tesi prospettata dalla ricorrente si risolverebbe in una sorta di avallo dell’idea che, quando è dedotta in giudizio una pretesa relativa ad un’obbligazione di valore, il giudice, oltre a dover liquidare la somma dovuta al momento della pronuncia tenendo conto della detta natura dell’obbligazione e, quindi, per il pieno riconoscimento della domanda, sia tenuto a far luogo ad una condanna in futuro del tutto ipotetica, non sapendosi se l’adempimento di quanto liquidato all’attualità avverrà immediatamente oppure avverrà solo dopo il momento della consolidazione della sentenza con il giudicato, la cui verificazione fra l’altro è evento incertus an, non sapendosi se la sentenza sarà impugnata, quando ancora sia impugnabile, come la sentenza di appello.

In sostanza, la tesi prospettata dalla ricorrente avallerebbe l’idea di una sorta di ipotesi di automatismo secondo il quale il giudice, non solo dovrebbe far luogo ad una condanna in futuro, al di fuori di una previsione di legge, ma lo dovrebbe fare con riferimento ad una fattispecie di danno ulteriore del tutto incerta, a differenza di quanto accade per la condanna – a far tempo dalla pronuncia, nel presupposto che ormai il credito da quel momento sia divenuto di valuta – alla corresponsione degli interessi per il caso di mora, correttamente riconosciuto dalla sentenza impugnata. L’eventuale danno da ritardo ulteriore nell’adempimento del dictum della sentenza dopo la pronuncia, cioè dopo la sua pubblicazione, si iscriverà, invece, nell’ambito dell’art. 1224, secondo comma, e potrà essere, ricorrendone le condizioni, richiesto in separato giudizio, se del caso anche monitorio. Ma, al riguardo, non è questa la sede per soffermarsi sulla questione.

§3. Con il terzo motivo è dedotta “violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1224 c.c.) Art. 360 n. 3 c.c.”.

Vi si deduce la stessa doglianza di cui al motivo precedente riguardo all’importo riconosciuto a titolo di danno da ritardato inadempimento, sulla somma capitale liquidata per il danno non patrimoniale liquidata all’attualità: è palese che essendo tale operazione diretta a realizzare sempre l’operazione di liquidazione del danno correlativamente alla natura di valore dell’obbligazione, nuovamente vengono in rilievo i principi richiamati a proposito del motivo precedente.

Da essi discende analogamente l’infondatezza del motivo.

p.4. Con il quarto motivo si deduce “violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c.) Art. 360 n. 3 c.p.c. – Omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.)”.

L’illustrazione è conclusa dal seguente quesito di diritto: “Il complesso di norme ricavabili dagli artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c. impone che nella valutazione equitativa del danno da ritardo, quale ristoro per la mancata disponibilità della somma spettante a titolo di risarcimento danni, si tenga conto di ogni elemento utile ed in particolare del tempo trascorso dall’evento lesivo, in modo tale che non costituisca un simulacro o una parvenza di risarcimento?”.

Si tratta di un quesito che non fa comprendere in alcun modo quale sia la quaestio iuris che sarebbe illustrata nel motivo, atteso che, per un verso si fa generico riferimento al criterio di valutazione della considerazione di ogni elemento utile ed in particola del tempo trascorso senza alcuna correlazione, pur riassuntiva, con la motivazione della sentenza impugnata.

In tal modo il quesito si risolve in un interrogativo del tutto astratto e, quindi, è inidoneo ad adempiere l’onere di cui all’ora abrogato art. 366-bis c.p.c., perché privo di funzione conclusiva.

L’art. 366-bis c.p.c., infatti, quando esigeva che il quesito di diritto dovesse concludere il motivo imponeva che la sua formulazione non si presentasse come la prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla vicenda oggetto del procedimento, bensì evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero, se il quesito doveva concludere l’illustrazione del motivo ed il motivo si risolve in una critica alla decisione impugnata e, quindi, al modo in cui la vicenda dedotta in giudizio è stata decisa sul punto oggetto dell’impugnazione e criticato dal motivo, appare evidente che il quesito, per concludere l’illustrazione del motivo, doveva necessariamente contenere un riferimento riassuntivo ad essa e, quindi, al suo oggetto, cioè al punto della decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse evidenziato – ancorché succintamente – perché l’interrogativo giuridico astratto era giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza impugnata. Un quesito che non presentava questa contenuto era, pertanto, un non-quesito (si veda, in termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008; nonché n. 6420 del 2008).

È da avvertire che l’utilizzo del criterio del raggiungimento dello scopo per valutare se la formulazione del quesito sia idonea all’assolvimento della sua funzione appare perfettamente giustificato dalla soggezione di tale formulazione, costituente requisito di contenuto-forma del ricorso per cassazione, alla disciplina delle nullità e, quindi, alla regola dell’art. 156, secondo comma, c.p.c., per cui all’assolvimento del requisito non poteva bastare la formulazione di un quesito quale che esso fosse, eventualmente anche privo di pertinenza con il motivo, ma occorreva una formulazione idonea sul piano funzionale, sul quale emergeva appunto il carattere della conclusività. Da tanto l’esigenza che il quesito rispettasse i criteri innanzi indicati.

Per altro verso, la previsione della necessità del quesito come contenuto del ricorso a pena di inammissibilità escludeva che si potesse utilizzare il criterio di cui al terzo comma dell’art. 156 c.p.c., posto che quando il legislatore qualifica una nullità di un certo atto come determinativa della sua inammissibilità deve ritenersi che abbia voluto escludere che il giudice possa apprezzare l’idoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo sulla base di contenuti desunti aliunde rispetto all’atto: il che escludeva che il quesito potesse integrarsi con elementi desunti dal residuo contenuto del ricorso, atteso che l’inammissibilità era parametrata al quesito come parte dell’atto complesso rappresentante il ricorso, ivi compresa l’illustrazione del motivo (si veda, in termini, già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007; (ord.) n. 15628 del 2009, a proposito del requisito di cui all’art. 366 n. 6 c.p.c.).

È, altresì, da avvertire, che l’intervenuta abrogazione dell’art. 366-bis c.p.c. non può determinare – in presenza di una manifestazione di volontà del legislatore che ha mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi proposti dopo il 4 luglio 2009 contro provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso la retroattività dell’abrogazione per i ricorsi proposti antecedentemente e non ancora decisi – l’adozione di un criterio interpretativo della stessa norma distinto da quello che la Corte di Cassazione, quale giudice della nomofilachia anche applicata al processo di cassazione, aveva ritenuto di adottare anche con numerosi arresti delle Sezioni Unite.

D’altro canto, nella specie, se si procedesse alla lettura dell’illustrazione del motivo emergerebbe che in esso si contesta sia il criterio di individuazione della base di calcolo nella liquidazione del danno da ritardo, sia il concreto criterio di calcolo prescelto. Il quesito avrebbe dovuto evocare entrambi gli oggetti di queste critiche, mentre ad essi non fa alcun riferimento, sì che emergerebbe anche che il generico ed astratto quesito proposto non è pertinente al motivo, che contesta non che non sia stato rispettato quanto genericamente indicato dal quesito, bensì specifici aspetti del procedimento liquidatorio.

Il motivo dev’essere, dunque, dichiarato inammissibile.

p.5. Il quinto motivo prospetta “violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1176, 1460, 2236 c.c.) Art. 360 n. 3 c.c. – Omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.)”.

Vi si censura il capo della sentenza impugnata, con cui la Corte cagliaritana, in accoglimento parziale dell’appello degli eredi con cui si lamentava che il primo giudice avesse omesso di pronunciare sulla loro domanda riconvenzionale, intesa ad ottenere la condanna della C. al pagamento delle competenze richieste dal de cuius per l’espletamento delle sue prestazioni, ha considerato dovuta la somma corrispondente alle prestazioni eseguite fino alla pronuncia, nella controversia in cui l’espletamento era avvenuto, della sentenza che aveva dichiarato estinto il giudizio, per la irritualità della riassunzione, in quanto avvenuta soltanto nei confronti del responsabile della causazione del sinistro e non anche della sua società assicuratrice. Erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto irrilevante ai fini della responsabilità professionale del de cuius, l’errore professionale – pur da essa stessa riconosciuto – consistente nella detta mancata notifica, reputando che rilevasse, invece, solo quello compiuto per non avere impugnato la sentenza dichiarativa dell’estinzione e che, dunque, l’inadempimento della prestazione fonte di responsabilità solo nell’omissione della proposizione dell’appello si dovesse ravvisare. Ciò la Corte territoriale ha fatto affermando che “l’errore ritenuto in questa sede effettivamente rilevante è invece quello riconducibile alla attività svolta successivamente alla decisione del Tribunale, in relazione alla quale non sono stati però richiesti compensi”.

Ad avviso della ricorrente l’errore compiuto dal de cuius nel riassumere la causa non potrebbe considerarsi, viceversa, assorbito dall’errore successivo nel non impugnare la sentenza dichiarativa dell’estinzione e ciò perché esso avrebbe concorso nel compromettere le ragioni della ricorrente, ove vi fosse stata possibilità di una riforma della sentenza in appello.

Inoltre, la colpa professionale del de cuius sarebbe sussistita anche per non avere osservato in sede di riassunzione la regola del litisconsorzio necessario e, considerato che anche riguardo a detta prestazione era sussistito l’inadempimento del de cuius, l’applicazione del principio inadimplenti non est adimplendum avrebbe comportato l’esclusione della debenza del corrispettivo per le dette prestazioni.

p.5.1. Il motivo è fondato.

Si deve, infatti, rilevare che non è corretto in iure l’assunto della Corte territoriale, secondo cui, essendo stato compiuto l’errore professionale che aveva cagionato il danno con la mancata impugnazione della sentenza dichiarativa dell’estinzione, l’attività professionale pregressa non dovrebbe essere considerata come eseguita in modo da porre il de cuius in posizione di inadempienza, sì da doversi escludere che gli fosse dovuto il corrispettivo per essa.

Tale assunto trascura, infatti, che l’errore professionale per così dire definitivo e fonte ultima del danno, cioè quello compiuto per la mancata impugnazione della sentenza (ritenuto sul piano soggettivo addebitabile al de cuius dalla Corte territoriale per la mancata informazione alla cliente sulla possibilità di appellare la sentenza dichiarativa dell’estinzione, con punto non più in discussione), ha prodotto la conseguenza di rendere del tutto inutile l’attività professionale pregressa in quanto finalizzata a tutelare il diritto fatto valere in giudizio dalla ricorrente e, quindi, ha posto il professionista in una condizione per cui la sua prestazione, che egli era stato chiamato a svolgere per l’assicurazione della detta tutela, si doveva ritenere totalmente inadempiuta, perché risultava non aver prodotto alcun effetto a favore del cliente e ciò sia dal punto di vista del risultato, se l’obbligazione dedotta nel contratto di prestazione di opera si considerasse di risultato per la non eccessiva difficoltà della vicenda nella quale si è concretato l’errore, sia dal punto di vista della prestazione del mezzo della propria prestazione d’opera, se la si considerasse come obbligazione di mezzi.

Ne deriva che la situazione determinatasi si doveva considerare di inadempimento totale anche per le prestazioni eseguite prima della sentenza di estinzione, perché esse risultavano espletate inutiliter e, quindi, come se non fossero state espletate e ciò per colpa del de cuius, consistita nell’omissione dell’impugnazione in presenza di omessa informazione alla cliente sulla sua possibilità e nella conseguente preclusione della tutela giurisdizionale della situazione della ricorrente, con derivata perdita del diritto (ormai prescrittosi, stante il venir meno dell’effetto interruttivo permanente del corso della prescrizione, già ricollegatosi alla proposizione della domanda giudiziale).

Il motivo dev’essere accolto e, poiché non occorrono accertamenti perché si evidenzi che la domanda su cui il primo giudice aveva omesso di pronunciare riguardo al corrispettivo preteso e su cui la Corte territoriale si è pronunciata, è infondata, tale infondatezza può senz’ altro dichiararsi in questa sede.

p.4. Le spese dei due gradi del giudizio di merito vanno poste a carico totale dei resistenti. La liquidazione resta quella operata secondo la tariffa dell’epoca di espletamento e si commisura a quella ritenta dalla Corte territoriale.

Il parziale accoglimento del ricorso induce a compensare fino alla metà le spese del giudizio di cassazione, che, dunque, vanno poste a carico dei resistenti in misura corrispondente e si liquidano in dispositivo con l’applicazione del d.m. n. 140 del 2012.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili il primo e il quarto motivo. Rigetta il secondo ed il terzo. Accoglie il quinto motivo e cassa la sentenza impugnata in relazione. Pronunciando nel merito rigetta la domanda riconvenzionale dei resistenti. Condanna i resistenti, con distrazione delle spese a favore dei difensori avvocati F. F. e L. M., alla rifusione alla ricorrente delle spese del giudizio di primo e di secondo grado nella totalità degli importi liquidati dalla sentenza cassata e, quindi, rispettivamente in Euro 2.518 (di cui 680,00 per diritti di procuratore, 1.500,00 per onorari di avocato e 218,00 per spese generali), oltre i.v.a. e c.p.a. come per legge e in Euro 3.300,00 (di cui 780,00 per diritti di procuratore, 2.220,00 per onorari di avvocato e 300,00 per spese generali), oltre i.v.a. e c.p.a. come per legge. Condanna i resistenti alla rifusione alla ricorrente della metà delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 4.000,00, di cui duecento per esborsi, e, quindi, in Euro 2000,00 oltre accessori come per legge.

L’immagine del post è stata realizzata da succo, rilasciata con licenza cc.

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