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La Cassazione si è occupata dei limiti di configurabilità del reato di violenza sessuale, quando la vittima risulti essere una prostituta.

Nel caso sottoposto all’attenzione dei Giudici di legittimità (e deciso con la sentenza n. 12836/13), infatti, la difesa del ricorrente sosteneva la minore lesività della condotta perpetrata ai danni della persona offesa, in considerazione della sua qualità di prostituta, avvezza, per mestiere, a rapporti con sconosciuti, quindi, esposta al rischio di aggressioni ed abituata a difendersi in situazioni poco edificanti.

 

 

Di diverso avviso tuttavia i Giudici di Piazza Cavour, i quali hanno sottolineato che il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice di cui all’art. 609 bis c.p. è costituito dalla libertà di espressione della propria sessualità, così che il principio di libera autodeterminazione della sfera sessuale trova applicazione anche nei confronti della prostituta, in quanto è rimessa all’esclusiva disponibilità di quest’ultima la vendita del proprio corpo (cfr. Cass. sez. III n.19732, 08/04/2010 dep. 25/05/2010 Rv. 247490).

Tra l’altro, nel caso di specie, l’analisi fattuale confermava la violenza, dato che la vittima aveva concordato una prestazione sessuale a pagamento col solo conducente dell’autovettura fermatasi nel luogo ove esercitava il meretricio ed essendo stata costretta, nonostante la resistenza opposta, a subire molteplici rapporti sessuali violenti ad opera, oltre che del conducente, di altro uomo nascosto nel bagagliaio dell’auto, allorché era salita a bordo.

 

Più in generale, la Suprema Corte ha colto l’occasione per ribadire che “…il delitto di violenza sessuale ricorre anche quando vittima sia una prostituta, tutte le volte in cui l’atto sessuale trasmodi dal contenuto della prestazione liberamente concordata, esulando, per le modalità con cui è stato consumato, dal consenso originariamente prestato dalla prostituta, ma, per il suesposto principio della libertà di autodeterminazione della propria sfera sessuale, la valutazione della gravità della condotta prescinde dalla qualità della vittima, non subendo alcuna attenuazione per il solo fatto che trattasi di persona dedita al meretricio. Si ricorda in proposito che la Suprema Corte ha avuto modo di riconoscere pari gravità alla violenza sessuale perpetrata ai danni di una prostituta al punto da escludere l’attenuante di cui al terzo comma dell’art. 609 bis c.p., rilevando come “ai fini della configurabilità dell’attenuante della minore gravità del fatto non rileva la circostanza che la vittima eserciti la prostituzione, in quanto il diritto al rispetto della libertà sessuale prescinde da condizioni e qualità personali, dal motivo e dal numero dei rapporti avuti in passato con persone più o meno conosciute“. (Sez. 2, 08/01/2009 dep. 22/01/2009 Rv. 242670, v anche Sez. 3, n. 19732 08/04/2010 Ud. dep. 25/05/2010 Rv. 247490)”.

 

 

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

 

SEZIONE III PENALE

 

Sentenza 18 luglio 2012 – 20 marzo 2013, n. 12836

(Presidente Fiale – Relatore Savino)

 

Ritenuto in fatto

 

C.C. e M.M.T. proponevano ricorso per Cassazione avverso la sentenza in data 21.10.2011 della Corte di Appello di Roma emessa a conferma della sentenza del Tribunale di Velletri in data 24.1.011 con la quale i predetti venivano dichiarati colpevoli dei reati di sequestro di persona cui agli art. 110, 605 cp (capo 1), violenza sessuale aggravata di cui agli art. 110, 609 bis, 609 ter n.4, 609 septies n.4 cp (capo2), rapina di cui agli art. 110, 628 c.p. (capo3) ai danni di Ca.Ta. e, ritenuta la continuazione, venivano condannati ciascuno alla pena di anni otto mesi sei di reclusione, alle pene accessorie come per legge oltre al pagamento delle spese processuali.

 

La difesa del C. deduceva, a fondamento del ricorso, il seguente motivo: Violazione di legge della legge ai sensi dell’art. 606 lett. B) c.p.p. in relazione all’art. 143 cpp, nonché agli art. 24, 111 Cost. e direttiva 2010/64/UE trattato CE, con conseguente nullità degli atti processuali e delle sentenze di primo e secondo grado.

 

Lamenta il ricorrente che tutti gli atti del processo in entrambi i gradi di merito si sono svolti in lingua italiana senza traduzione nella lingua conosciuta agli imputati, con grave compromissione del suo diritto di difesa, in quanto, non comprendendone i contenuti e le procedure, egli non è stato in grado di valutare quali fossero gli elementi a suo carico, di valutare le dichiarazioni dei testi e di chiedere riti alternativi.

 

La difesa di M.M.T. deduceva, a fondamento del ricorso, il seguente motivo: 1 – mancanza, manifesta illogicità della sentenza impugnata per aver la Corte di appello recepito supinamente il percorso argomentativo dei giudici di primo grado senza considerare rilevanti elementi di segno contrario al costrutto accusatorio, indicativi di una accondiscendenza verso il M. della persona offesa, incompatibile con la coartazione cui sarebbe stata sottoposta. 2 – Violazione della legge ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. B) c.p.p. in relazione all’art. 609 bis ultimo comma cp. per aver omesso la Corte distrettuale di riconoscere l’aggravante del fatto di minore gravità, prevista dalla suindicata norma, da ritenersi sussistente in relazione alla qualità di prostituta della vittima, persona usa a pratiche sessuali con sconosciuti ed esposta al rischio di aggressioni, con conseguente minore lesività della condotta e minore incidenza della stessa sulla sua sfera psichica.

 

3 – Violazione della legge ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. B) c.p.p. in relazione all’art.628 comma 8 e 62 n. 4 cp., illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. E) c.p.p.. Deduce il ricorrente l’insussistenza della violenza e della minaccia come elemento costitutivo del reato di rapina in quanto la sottrazione del cellulare e del denaro alla parte offesa è avvenuto in un contesto generale in cui violenza e le minacce non erano finalizzate all’impossessamento di tali beni, bensì, principalmente, alla privazione della libertà della Ca.Ta. e alla consumazione dell’abuso sessuale ai suoi danni.

 

Lamenta inoltre l’omessa motivazione della Corte di merito sulla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n.4 cp., richiesta dal ricorrente con specifico motivo di appello in considerazione del modesto valore dei beni sottratti.

 

4 – Violazione della legge ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. B) c.p.p. in relazione all’art. 62 bis per la mancata concessione delle attenuanti generiche e assenza di adeguata logica motivazione in ordine al diniego.

 

Considerato in diritto

 

Il motivo dedotto dalla difesa del predetto, concernente la mancata traduzione degli atti del procedimento e delle sentenze di merito nella lingua conosciuta all’imputato, con conseguente nullità dell’intero procedimento e delle sentenze, è infondato.

Devesi innanzitutto premettere che la doglianza è stata dedotta, come motivo di impugnazione, per la prima volta in questo grado del giudizio, non essendo stata oggetto dei motivi di appello. Tale omissione da luogo ad un’ipotesi di inammissibilità del ricorso prevista dall’art. 606 comma terzo c.p.p., secondo cui è inammissibile il ricorso per Cassazione proposto per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello. Non vi è dubbio, invero, che la mancata assistenza dell’interprete nello svolgimento degli atti del procedimento denunciata dal ricorrente, concretandosi nella violazione dell’art. 143 c.p.p., integri una violazione di legge. Tuttavia, non tutti gli errori in procedendo danno luogo a tale ipotesi di inammissibilità del ricorso per cassazione, non preceduto dalla previa deduzione del vizio procedurale nel giudizio di appello.

 

La giurisprudenza della Suprema Corte è difatti concorde nel limitare le ipotesi di inammissibilità del ricorso ex art. 606 comma 3 c.p.p. alle violazioni di legge implicanti nullità relative ex art. 181 c.p.p. e nullità assolute a regime intermedio di cui all’art. 178 comma 1 lett. C) e 180 c.p.p., mentre per le nullità assolute rilevabili d’ufficio e in ogni grado e stato del procedimento di cui all’art. 178 comma primo lett. A) e 179 c.p.p., è consentita la deducibilità con ricorso per Cassazione anche se non sono state previamente eccepite in appello, senza incorrere in alcuna preclusione, (v. in tal senso Cass. Sez. 6, n. 19674 del 30/03/2004 dep. 28/04/2004 Rv. 228337, Sez. 1, n. 4031 del 25/02/1991 dep. 12/04/1991, Rv. 187950).

 

Nel caso di specie, la nullità dedotta, ove anche in ipotesi effettivamente sussistente, non rientrando in alcuna delle ipotesi considerate dall’art. 179 c.p.p., va qualificata come nullità a regime intermedio, ex artt. 178 comma 1, lett. c), e 180 c.p.p., sicché essa non può essere fatta valere come motivo di ricorso per Cassazione se, come nel caso di specie, non è stata dedotta con i motivi di appello (art. 606 comma 3 c.p.p.). Discende da ciò l’inammissibilità del motivo di ricorso.

 

Per completezza espositiva, osserva questa Corte che il motivo dedotto dalla difesa del M. difetta comunque dei requisiti di specificità in quanto denuncia la mancata traduzione (rectius, mancata assistenza dell’interprete) facendo generico, indiscriminato riferimento a tutti gli atti del procedimento, senza specificazione alcuna, senza peraltro dimostrare di aver rappresentato la propria ignoranza della lingua italiana, dimodoché il giudice ne fosse edotto, e di aver fatto richiesta di interprete. Tale modalità di deduzione del motivo di ricorso si pone in contrasto col disposto dell’art. 581 lett. C) c.p.p., sulla specificità dei motivi di impugnazione, ed anche col principio di autosufficienza del ricorso (Cass. sez V 22.1.010 n. 11910, sez I 22.1.09 n. 6112 rv 243225, sez I 18.3.08 -22.4.08 rv 240123, Cass Sez. 1, Ordinanza 18/05/2006- 14/06/2006 Rv. 234115).

M.M.T.

1 – Il primo motivo, attraverso la deduzione del vizio di motivazione in ordine alla responsabilità del ricorrente, è diretto a sollecitare una rivalutazione delle risultanze processuali, una diversa lettura degli elementi di fatto, non consentita al giudice di legittimità.

Si richiamano a tale riguardo i principi enunciati dalla Suprema Corte in materia secondo i quali il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione dell’espressa previsione dell’art. 606 co 1 lett. E cpp, al solo accertamento della congruità e coerenza dell’apparato argomentativo, con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o della autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti. Ne consegue che, laddove le censure del ricorrente non siano tali da scalfire la logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, queste devono ritenersi inammissibili perché proposte per motivi diversi da quelli consentiti, in quanto non riconducibili alla categoria di cui al richiamato art. 606 co. 1 lett. E. (Cass. S.U. n. 12 del 31.5.00, S.U. n. 47289 del 24.9.03, sez III n.40542 del 12.10.07, sez. IV n. 4842 del 2.12.03).

Fatta questa premessa sui limiti del sindacato di legittimità, occorre stabilire se la sentenza impugnata abbia fornito una congrua, logica ed esaustiva motivazione della valutazione delle risultanze processuali.

 

Venendo al caso in esame, la difesa del ricorrente lamenta che i giudici di appello hanno motivato sulla base di elementi contraddittori e illogici, costituiti dalla deposizione della parte offesa, ritenuta dalla difesa poco attendibile, senza esaminare i fatti alla luce di tutte le emergenze processuali e delle deduzioni difensive, che mettevano in evidenza le contraddizioni del narrato della predetta, in particolare con riferimento al comportamento di accondiscendenza tenuto dalla K. verso i presunti violentatori, incompatibile con la denunciata violenza sessuale. L’assunto non è fondato poiché la Corte ha assolto l’obbligo della motivazione spiegando congruamente le ragioni del proprio convincimento e ritenendo, con espresso richiamo alle puntuali argomentazioni della sentenza di primo grado, sussistenti a carico degli imputati specifici e concreti elementi di prova.

 

In particolare la Corte di merito ha evidenziato, con motivazione congrua ed aderente alle emergenze istruttorie, l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie della parte offesa, riscontrate dalla deposizione dell’amica che ha raccolto le confidenze della Ca. e che in dibattimento ha riferito una versione dei fatti del tutto coincidente con quella narrata dalla predetta, dalle modalità di successiva individuazione dei due aggressori, dal sicuro riconoscimento effettuato dalla vittima dei suoi imputati sia nel corso delle indagini sia in dibattimento, nonché dalle dichiarazioni parzialmente ammissive di costoro, sia pure seguite da una successiva ritrattazione, di guisa che devono ritenersi destituite di fondamento le censure mosse dai ricorrenti alla Corte di merito.

Peraltro i rilievi difensivi non sono connotati di concretezza e specificità, non avendo il ricorrente precisato quali fossero i passaggi argomentativi della sentenza impugnata dai quali desumere il vizio di motivazione, in punto di affermazione di responsabilità.

Non è, quindi ravvisabile la dedotta illogicità della motivazione la quale, peraltro, per essere apprezzabile come vizio denunciatole, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Cassazione Sezioni Unite n. 24/1999, 24.11.1999, Spina, RV. 214794).

 

 

Il motivo di ricorso è pertanto inammissibile.

 

2 – Il secondo motivo, concernente il diniego dell’attenuante speciale di cui all’art. 609 bis terzo co c.p., è infondato.

 

La Corte di merito ha fornito esauriente e logica spiegazione delle ragioni del mancato riconoscimento dell’attenuante in questione, richiesta dall’imputato, fondate sulla brutalità delle violenze sessuali, commesse congiuntamente da due persone e, reiteratamente, durante la notte, da parte del M., sulle turpi finalità cui era finalizzato il sequestro di persona, sull’entità dei danni riportati dalla vittima.

 

Né appare condivisibile l’assunto della difesa del ricorrente della minore lesività della condotta e dei modesti danni psichici (oltre che fisici) riportati dalla parte offesa, in considerazione della sua qualità di prostituta, avvezza, per mestiere, a rapporti con sconosciuti, quindi, esposta, al rischio di aggressioni ed abituate a difendersi in situazioni poco edificanti.

 

Poiché il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice di cui all’art. 609 bis c.p. è costituito dalla libertà di espressione della propria sessualità, il principio di libera autodeterminazione della sfera sessuale trova applicazione anche nei confronti della prostituta, in quanto è rimessa all’esclusiva disponibilità di quest’ultima la vendita del proprio corpo (v. in tal senso Cass. sez. III n.19732, 08/04/2010 dep. 25/05/2010 Rv. 247490).

Di conseguenza, il delitto di violenza sessuale è configurabile anche nel caso in cui si eserciti violenza o minaccia per costringere una prostituta a consumare un rapporto sessuale non consensuale, ipotesi che ricorre nel caso di specie, avendo la vittima concordato una prestazione sessuale a pagamento col solo conducente dell’autovettura fermatasi nel luogo ove esercitava il meretricio ed essendo stata costretta, nonostante la resistenza opposta, a subire molteplici rapporti sessuali violenti ad opera, oltre che del conducente, di altro uomo nascosto nel bagagliaio dell’auto, allorché la predetta era salita a bordo.

 

Non solo il delitto di violenza sessuale ricorre anche quando vittima sia una prostituta, tutte le volte in cui l’atto sessuale trasmodi dal contenuto della prestazione liberamente concordata, esulando, per le modalità con cui è stato consumato, dal consenso originariamente prestato dalla prostituta, ma, per il suesposto principio della libertà di autodeterminazione della propria sfera sessuale, la valutazione della gravità della condotta prescinde dalla qualità della vittima, non subendo alcuna attenuazione per il solo fatto che trattasi di persona dedita al meretricio. Si ricorda in proposito che la Suprema Corte ha avuto modo di riconoscere pari gravità alla violenza sessuale perpetrata ai danni di una prostituta al punto da escludere l’attenuante di cui al terzo comma dell’art. 609 bis c.p., rilevando come “ai fini della configurabilità dell’attenuante della minore gravità del fatto non rileva la circostanza che la vittima eserciti la prostituzione, in quanto il diritto al rispetto della libertà sessuale prescinde da condizioni e qualità personali, dal motivo e dal numero dei rapporti avuti in passato con persone più o meno conosciute”. (Sez. 2, 08/01/2009 dep. 22/01/2009 Rv. 242670, v anche Sez. 3, n. 19732 08/04/2010 Ud. dep. 25/05/2010 Rv. 247490). Il motivo è dunque infondato e deve essere rigettato.

 

3 – Altrettanto infondato è il terzo motivo concernente la dedotta inconfigurabilità del reato di rapina per l’assenza dell’elemento costitutivo della violenza. Osserva questa Corte che è assolutamente fondato, oltre che logicamente argomentato, il convincimento espresso dalla corte di merito circa la sussistenza di un generale contesto di violenza fisica in cui si è venuto ad inserire anche il reato di rapina. La violenza fisica posta in essere nei confronti della vittima e le minacce profferite di farle del male, non possono essere finalisticamente riferite alla sola perpetrazione dell’abuso sessuale, essendo invece mirate al compimento della complessiva condotta criminosa degli imputati, ricompresiva della rapina. Il motivo deve pertanto essere rigettato.

 

4 – Ad analoga conclusione deve pervenirsi con riguardo al quarto motivo concernente il diniego della attenuanti generiche richieste in appello.

 

Si ricorda in proposito che la concessione o meno delle attenuanti generiche, al pari della statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, rientra nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, che sfugge al sindacato di legittimità qualora non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretto da sufficiente motivazione. (Sez. II, Sentenza, del 25/02/2010 Ud. (dep. 18/03/2010) Rv. 245931, Sez. 2, Sentenza del 18/01/2011 Ud. (dep. 01/02/2011) Rv. 249163).

Nel caso di statuizione sulle attenuanti generiche, il relativo giudizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la valutazione circa l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Si è ritenuto di conseguenza che, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso
può essere sufficiente in tal senso, non essendo necessario che siano esaminati tutti i parametri di cui all’art. 133 cod. pen. (Cass. Sez. 2, Sentenza 18/01/2011 – 01/02/2011 rv. 249163, Sez. 1, Sentenza del 07/07/2010 – 13/09/2010 Rv. 247959).

Orbene, la sentenza impugnata, nel richiamare e fare proprie le conclusioni della sentenza di primo grado con riguardo al diniego delle attenuanti generiche, ha fornito adeguata e congrua motivazione della scelta operata, che, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, si fonda sulla valutazione della estrema gravità dei fatti e dell’elevata pericolosità sociale degli imputati quale emerge, per il M., da specifici e recenti carichi pendenti.

 

I ricorsi devono dunque essere rigettati.

 

Segue per legge, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

 

 

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