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La Suprema Corte si è da ultimo occupata della rilevanza penale della condotta dei ristoratori che non indicano, all’interno dei propri menu, quali alimenti siano freschi e quali surgelati.

Già in secondo grado, la Corte territoriale aveva riscontrato l’esistenza dei presupposti del tentativo di frode in commercio, “osservando che l’inserimento degli alimenti congelati nel menu, senza la menzione della indicata qualità, costituisce un’offerta al pubblico, in quanto tale non revocabile, con la conseguente idoneità della stessa a determinare il conseguimento del risultato illecito”.

Gli imputati hanno presentato ricorso in Cassazione sostenendo che l’indicazione nel menu di determinati alimenti non costituisca un’offerta al pubblico irrevocabile.

Potrebbe, infatti, verificarsi che una determinata pietanza, anche se indicata nel menu, non sia disponibile, con la conseguenza che il ristoratore non è obbligato a servirla.

In tal caso, si verserebbe in un’ipotesi di reato impossibile.

Inoltre, sempre secondo i ricorrenti, non sarebbe richiamabile la figura criminosa del tentativo di frode in commercio, in quanto mancherebbe il requisito dell’inizio di contrattazione.

Sul punto, invece, i Giudici di Piazza Cavour hanno avuto modo di precisare che “Il contrasto interpretativo in ordine alla configurabilità del tentativo di frode in commercio nella fattispecie in esame, peraltro risalente nel tempo (cfr. per la tesi opposta: sez. 3, sentenza n. 37569 del 25/09/2002, RV 222556), risulta definitivamente superato dalla giurisprudenza più recente, ma ormai consolidata, di questa Suprema Corte, secondo la quale “anche la mera disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menu, nella cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore”. (sez. 3, sentenza n. 6885 del 18/11/2008, Chen, Rv. 242736; sentenze precedenti conformi: n. 10145 del 2002 Rv. 221461, n. 19395 del 2002 Rv. 221958, n. 14806 del 2004 Rv. 227964, n. 24190 del 2005 Rv. 231946, n. 23099 del 2007 Rv. 237067)”.

Secondo la Suprema Corte, infatti, la questione della revocabilità dell’offerta contenuta nel menu può acquisire rilevanza solo ai fini della configurabilità del reato (si pensi all’ipotesi in cui il ristoratore, a seguito della richiesta del cliente di una determinata pietanza, rifiuti di consegnare l’aliud pro alio), ma non incide sul perfezionamento della fattispecie del tentativo, che si consuma con la mancata indicazione nel menu della qualità degli alimenti surgelati o congelati.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

Sentenza 2 ottobre – 5 novembre 2013, n. 44643

(Presidente Mannino – Relatore Lombardi)

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 15/11/2012 la Corte di appello di Milano, in accoglimento dell’impugnazione del P.G. avverso la sentenza del Tribunale di Milano in data 13/03/2009, ha affermato la colpevolezza di P.M. e P.M. in ordine al reato di cui agli art. 110, 56 e 515 c.p., loro ascritto perché, in qualità di titolari di un esercizio per la somministrazione di cibi e bevande, denominato “Osteria Ilios”, compivano atti idonei univocamente diretti a consegnare agli acquirenti sostanze alimentari diverse da quelle indicate nelle lista delle vivande ed, in particolare, cibi congelati, benché detta qualità non fosse indicata nella predetta lista, condannandoli alla pena di mesi due di reclusione ciascuno.

In sintesi, il giudice di primo grado aveva escluso che la mera detenzione all’interno di un frigorifero di merce congelata e la mancata indicazione nella lista delle vivande di detta qualità integrasse la fattispecie degli atti idonei diretti in modo non equivoco alla vendita fraudolenta.

La Corte territoriale ha, invece, affermato che la descritta condotta integra l’ipotesi del tentativo di frode in commercio, osservando che l’inserimento degli alimenti congelati nel menù, senza la menzione della indicata qualità, costituisce un’offerta al pubblico, in quanto tale non revocabile, con la conseguente idoneità della stessa a determinare il conseguimento del risultato illecito.

2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso personalmente gli imputati, che la denunciano per vizi di motivazione e violazione di legge.

2.1. Mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento a quanto emerso dall’esame testimoniale all’esito del procedimento di primo grado.

In sintesi, si deduce, citando, oltre alle dichiarazioni dell’imputato P.M., le deposizioni di alcuni testi, tra i quali lo stesso verbalizzante, che dall’istruzione dibattimentale non era affatto emerso con certezza che gli alimenti citati in imputazione fossero congelati.

2.2. Errata applicazione degli art. 55 e 515 c.p.

La Corte territoriale ha erroneamente affermato che la indicazione nel menù di determinati alimenti costituisca un’offerta al pubblico non revocabile. Può, infatti, verificarsi che una determinata pietanza, anche se indicata nel menù, non sia di fatto disponibile con la conseguenza che il ristoratore non è obbligato a servirla. In tal caso in pratica si verserebbe in un’ipotesi di reato impossibile. Inoltre, la condotta descritta nell’imputazione, in assenza di un inizio di contrattazione, non integra la fattispecie del tentativo di frode in commercio. Peraltro, l’ispezione è stata effettuata in orario di chiusura del locale e non è neppure certo che il menù si riferisse alle pietanze disponibili al momento dell’accertamento.

2.3.4.5. Si denuncia, infine, violazione di legge e vizi di motivazione della sentenza in ordine al diniego delle attenuanti generiche, all’applicazione della pena detentiva, invece di quella pecuniaria, e alla mancata concessione del beneficio della sospensione della stessa.

Considerato in diritto

1. Il ricorso non è fondato.

2. Stante il carattere pregiudiziale della questione di diritto occorre esaminare preliminarmente il secondo motivo di gravame.

Il contrasto interpretativo in ordine alla configurabilità del tentativo di frode in commercio nella fattispecie in esame, peraltro risalente nel tempo (cfr. per la tesi opposta: sez. 3, sentenza n. 37569 del 25/09/2002, RV 222556), risulta definitivamente superato dalla giurisprudenza più recente, ma ormai consolidata, di questa Suprema Corte, secondo la quale “anche la mera disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menu, nella cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore”. (sez. 3, sentenza n. 6885 del 18/11/2008, Chen, Rv. 242736; sentenze precedenti conformi: n. 10145 del 2002 Rv. 221461, n. 19395 del 2002 Rv. 221958, n. 14806 del 2004 Rv. 227964, n. 24190 del 2005 Rv. 231946, n. 23099 del 2007 Rv. 237067).

Il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dal più recente indirizzo interpretativo, in quanto lo stesso risulta conforme ai principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte in materia di tentativo del reato di cui all’art. 515 c.p., sia pure con riferimento fattispecie concreta diversa (cfr. Sez. Un. sentenza n. 28 del 25/10/2000, Morici, RV 217295).

In materia, inoltre, la questione civilistica della cosiddetta offerta al pubblico, non revocabile se non con le medesime forme, di cui trattano la sentenza impugnata ed il ricorso per contestarne le affermazioni, non appare affatto dirimente, né rilevante, ai fini della configurabilità del tentativo.

La questione della revocabilità dell’offerta contenuta nel menu, infatti, può assumere rilevanza solo ai fini della configurabilità della desistenza, atta ad escludere il reato nell’ipotesi in cui il ristoratore, a seguito della richiesta del cliente di una determinata pietanza, rifiuti di consegnare l’aliud pro alio, ma non incide sul perfezionamento della fattispecie del tentativo, che si consuma con la mancata indicazione nel menu della qualità degli alimenti surgelati o congelati.

3. Gli ulteriori motivi di ricorso sono infondati o manifestamente infondati.

Il primo motivo si risolve nella richiesta di rilettura del materiale probatorio e di una diversa valutazione dello stesso, inammissibile in sede di legittimità.

E’ noto sul punto che, secondo l’ormai consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, anche a seguito della modifica dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen. per effetto della legge n. 46 del 2006, al giudice di legittimità restano precluse la pure e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di diversi parametri di ricostruzione dei fatti e il riferimento, contenuto nel nuovo testo dalla norma citata, agli “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” non vale a mutare la natura del giudizio di legittimità, il cui controllo rimane limitato alla struttura del discorso giustificativa del provvedimento impugnato e non può comportare una diversa lettura del materiale probatorio, anche se plausibile (sez. V, 22.3.2006 n. 19855, Blandino, RV 234095) (sez. III, 27.9.2006 n. 37006, Piras, RV 235508; sez. VI, 3.10.2006 n. 36546, Bruzzese, RV 735510).

Quanto alla determinazione della pena ed al diniego di benefici, infine, la sentenza risulta adeguatamente motivata mediante il riferimento ai parametri di cui all’art. 133 c.p. ed, in particolare, ai precedenti penali degli imputati.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato con le conseguenze di legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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