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Nella vita di un’azienda capita spesso di dover intrattenere rapporti commerciali con le imprese leader di quel settore (si pensi ad un’azienda produttrice di confetture che per raggiungere il grande pubblico debba trovare accordi commerciali con la GDO, vale a dire la grande distribuzione, composta da supermercati ed ipermercati).

Questo rapporto sbilanciato si traduce in contratti nei quali il grado di negoziabilità è nullo (i cd. contratti per adesione) o minimo.

Tuttavia, soprattutto nel ramo IT o, comunque, in tutti i casi in cui la conclusione del contratto avvenga mediante modalità informatiche (point and click), gli spazi di tutela per il contraente debole sono maggiori di quello che si possa pensare.

Vediamo cosa è successo con Google.

Google Adwords e Google Adsense

Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 7638/2016, si è occupata di un interessante caso che vede coinvolta una società, la quale svolgeva attività di progettazione, sviluppo e commercializzazione di pubblicità online, realizzazione e gestione di siti web ed era altresì proprietaria di un proprio motore di ricerca.

La suddetta società aveva stipulato con Big G i contratti di Adwords e Adsense.

Il business model di questa azienda viene così descritto dal Giudice di prime cure: “… da un lato, attirava utenti sul proprio sito web attraverso il programma AdWords, pagando ingenti somme a Google per apparire nelle prime posizioni e dall’altro, veniva remunerata da Google per le pubblicità in favore di terzi presenti sul proprio sito“.

In altre parole, questa società riusciva a ricavare un delta positivo tra gli importi che versava a Google per comparire nelle prime posizioni relativamente a determinate keywords (contratto Adwords) e le somme che Google le pagava per le inserzioni pubblicitarie presenti sul proprio sito (contratto Adsense).

C’eravamo tanto amati…

Dopo circa un paio d’anni i rapporti tra le parti si incrinano: dapprima Google contestava alla società una violazione della policy di Adsense, in quanto sul sito erano presenti collegamenti a siti per adulti, i quali, tuttavia, venivano prontamente rimossi; successivamente, appena pochi giorni dopo, Google decideva di disattivare l’account Adsense e di trattenere le somme ancora dovute.

L’azienda tentava di risolvere la questione, ma invano, non riuscendo nemmeno a capire le ragioni di una simile condotta.

Google, infatti, contestava alla società “un’attività di click non validi” e il fatto di aver “… rilevato attività non valide sul suo sito e il suo account è stato disattivato. Ci sono dei limiti alla quantità di informazioni che possiamo sulla specifica violazione che interessa il suo caso“, senza, tuttavia, fornire informazioni specifiche su quanto accaduto.

Abuso del diritto

Nel corso del giudizio è emerso come Google fosse a conoscenza del modello di business di questa società, avendo in più di un’occasione dettato le modifiche da implementare al sito, indicandone anche condizioni e termini.

Secondo il Tribunale di Milano la condotta di Google, la quale ha esercitato il diritto di recesso senza giusta causa, senza aver fornito alcuna motivazione, senza concedere un congruo termine per ricercare nuovi partner commerciali, pur consapevole dei rapporti di forza e sopravvivenza con questa società e, soprattutto, trattenendo importi rilevanti, se non essenziali per la prosecuzione dell’attività della stessa, integra gli estremi del cd. abuso del diritto, fattispecie giuridica fondata sulla mancanza di buona fede.

Ciò precisato, l’esercizio del diritto di recesso da parte di Google ci consente di effettuare la prima riflessione giuridica sui rapporti negoziali tra le parti.

Ed infatti è vero che nel contratto Adsense era prevista la possibilità per entrambe le parti di recedere dal contratto in qualsiasi momento e senza preavviso (clausola tipica nei rapporti a tempo indeterminato), ma tale diritto non può essere esercitato arbitrariamente, vale a dire senza alcuna ragione giustificatrice, soprattutto nei casi in cui vi è una sproporzione tra i contraenti.

Peraltro, nel caso in esame, Google tratteneva somme ancora dovute, motivando tale scelta con il fatto di aver restituito le somme relative al periodo in questione agli inserzionisti.

Tuttavia, il Tribunale evidenziava in primis come non fossero stati forniti sufficienti elementi di prova dell’avvenuta restituzione e, indipendentemente da ciò, riteneva che la condotta di Google realizzasse in ogni caso un’ipotesi di cd. autotutela, come tale vietata nel Ns. ordinamento.

Abuso di dipendenza economica e abuso di posizione dominante

Oltre all’abuso di diritto è stata altresì riscontrata un’ipotesi di abuso di dipendenza economica.

Su questo punto riportiamo le osservazioni del Tribunale: “Sebbene la condotta tenuta da Google recedendo dal contratto integri abuso di un diritto potestativo esercitato oltre i limiti e i presidi posti e imposti dall’ordinamento nazionale, la fattispecie in questione costituisce anche un vero e proprio “caso di scuola” di abuso di dipendenza economica ai sensi dell’art. 9, l. 192/1998, in particolar modo nella parte in cui prevede “il rifiuto di vendere o il rifiuto di comprare e la interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto”.
A norma dell’art. 9 della suddetta legge, che è estrinsecazione della clausola di buona fede, si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La posizione di dipendenza è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti“.

Per quanto riguarda, invece, la presenza di un illecito antitrust (abuso di posizione dominante), il Tribunale ha ritenuto la richiesta assorbita dalle diverse qualificazioni dell’illecito già riconosciute ed accertate sotto forma di abuso del diritto e abuso di dipendenza economica.

Clausola limitazione responsabilità: nullità

Big G, tuttavia, pur insistendo sulla inconfigurabilità di qualsiasi condotta illecita ad essa addebitabile, si difendeva facendo altresì valere la clausola di limitazione della responsabilità.

Il contratto Adsense, infatti, conteneva una clausola specifica, la quale fissava un tetto (“cap”) alla responsabilità “nella misura massima del 125% dell’ammontare netto corrisposto da Google … [omissis] … negli ultimi 12 mesi immediatamente precedenti la prima data in cui la responsabilità è sorta“.

Il Tribunale, tuttavia, ha dichiarato la clausola nulla, in quanto non era stata espressamente approvata per iscritto, così come prescritto dall’art. 1341 c.c. (sul tema leggi anche il nostro approfondimento sulle clausole vessatorie e il nostro approfondimento sulla tutela civilistica.)

L’art. 1341 c.c. prevede che, nei contratti predisposti da una singola parte, quali ad es. condizioni generali, alcune clausole debbano essere approvate specificatamente per iscritto; trattasi delle cd. clausole vessatorie, vale a dire clausole il cui contenuto realizza uno squilibrio tra i diritti e gli obblighi dei contraenti in favore della parte “forte” che ha predisposto quel testo (es. clausole limitative della responsabilità, tacita proroga o rinnovazione del contratto, deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria ecc.).

La mancata approvazione di questa clausola è “costata” a Google circa mezzo milione di Euro, cifra pari alle somme che quest’ultima aveva trattenuto alla società una volta esercitato il diritto di recesso.

Oltre alla predetta condanna, il Tribunale ha altresì ordinato l’espletamento di un’apposita CTU – Consulenza Tecnica d’Ufficio al fine di quantificare gli ulteriori danni subiti dalla società a seguito delle condotte illecite sopra descritte.

Una possibile soluzione al problema della doppia sottoscrizione

La vicenda appena analizzata ci dimostra come non sempre i rapporti di forza tra le parti siano definitivi ed immutabili.

Tuttavia i lettori più attenti potrebbero domandarmi: come avrebbe potuto Google far approvare espressamente per iscritto la clausola di limitazione della responsabilità e le eventuali altre clausole vessatorie, dato che il contratto è stato concluso via internet?

Il problema della sottoscrizione dei contratti online è noto oramai da tempo, pur non avendo ancora trovato una risposta precisa da parte del Legislatore nazionale e comunitario, il quale non si è ancora pronunciato in merito.

Nell’attesa che si arrivi ad una soluzione chiara e risolutiva della questione, come possono comportarsi quelle aziende, di dimensioni anche minori rispetto a Google, che vogliano concludere contratti via web?

Innanzitutto occorre distinguere tra la stipulazione di un contratto e l’approvazione delle clausole vessatorie.

Per quanto concerne il primo punto, al di fuori delle ipotesi in cui è richiesta la forma scritta per la conclusione del contratto (es. contratto di compravendita di beni immobili), i contratti possono essere conclusi anche oralmente o per fatti concludenti, per cui si può ben ritenere che l’apposizione di una spunta/flag in fase di completamento dell’ordine o, al limite, anche il semplice pagamento, possano integrare la conclusione di un contratto.

Per quanto riguarda, invece, quei casi – numerosi nella prassi –  in cui il contratto contenga al suo interno anche clausole vessatorie, le soluzioni che Vi suggerisco sono sostanzialmente 3:

  1. sottoscrizione del contratto e delle clausole vessatorie da parte dell’utente/cliente tramite firma autografa, invio del relativo pdf scansionato a mezzo mail ed invio dell’originale via posta ordinaria: soluzione efficace da un punto di vista giuridico, ma decisamente disincentivante per gli utenti/clienti
  2. sottoscrizione del contratto e delle clausole vessatorie da parte dell’utente/cliente mediante firma digitale: soluzione efficace da un punto di vista giuridico, ma poco praticabile, almeno fino a quando le firme digitali non saranno diffuse
  3.  sottoscrizione del contratto e delle clausole vessatorie da parte dell’utente/cliente mediante la cd. doppia spunta o flag: soluzione che ha sicuramente un impatto minore sull’acquisizione di nuovi utenti/clienti rispetto alla soluzione 1, ma sulla cui efficacia giuridica non si può ancora essere del tutto certi; ciò è dovuto al fatto che, relativamente alle clausole vessatorie, nei contratti BtB (business to business) l’art. 1341 c.c. richiede l’espressa approvazione per iscritto, mentre nei rapporti BtC (business to consumer) il Codice del Consumo richiederebbe addirittura il requisito della “trattativa individuale”, per cui, in assenza di interventi legislativi o delle autorità di vigilanza competenti (come accaduto, ad esempio, in ambito privacy, dove il Garante ha specificato che i consensi, al di fuori di ipotesi specifiche nelle quali è ancora necessaria la forma scritta, possono essere raccolti anche mediante spunte/flag – vedi la nostra guida sul marketing) sul punto, non si può essere certi sull’esito di un eventuale giudizio. Tuttavia, posso suggerire un paio di accorgimenti: 1. conservare traccia informatica delle spunte/flag; 2. inviare all’utente/cliente copia in pdf del contratto a mezzo mail.

CONTATTI

Avv. Daniele Costa

KBL Law

daniele.costa@kbl-law.com

 

L’immagine del post è stata realizzata da 422737, rilasciata con licenza CC.

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