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La pacifica distinzione tra la convivenza more uxorio e il rapporto coniugale non comporta che in una unione libera, che tuttavia abbia assunto i caratteri di comunità familiare, il rapporto del soggetto con la casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell’altro convivente, si fondi su un titolo giuridicamente irrilevante quale l’ospitalità, anziché sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare, come tale anche socialmente riconoscibile.

 

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 7214 del 21 marzo 2013.

Il caso: Tizio conviveva con Caia in un immobile di sua proprietà. Ad un certo punto, decide di cedere alla propria compagna la proprietà dell’immobile de quo, con regolare contratto di compravendita. La convivenza, in ogni caso, si protrae per un certo periodo di tempo. Finita l’unione, in occasione di un intervento dei carabinieri, sollecitato dalla donna, “induce” il compagno a lasciare l’immobile. Singolare la dinamica dei fatti: la donna lamenta un “tentativo di furto e/o di violazione di domicilio”; i militari, recatisi sul posto, verificano il regolare possesso dell’immobile da parte della donna. A questo punto, l’uomo, probabilmente, spaventato dalla possibilità di essere incriminato per i reati sopra indicati, consegna le chiavi dell’immobile e si allontana.

In un secondo momento, decide, però, di agire nei confronti della ex-compagna con l’azione di reintegrazione, sostenendo di aver subito uno “spoglio violento”.

La questione: Due le tesi contrapposte. Da un lato, quella dell’uomo, il quale asserisce che dalla convivenza more uxorio si fosse originata una situazione di compossesso e che, pertanto, la condotta della donna dovesse qualificarsi come spoglio illegittimo “tout court”. Dall’altro, quella della donna, la quale nega la sussistenza di qualsivoglia diritto, ragione o pretesa del proprio ex-compagno sull’immobile di cui trattasi, e ritiene che la posizione di quest’ultimo sia assimilabile a quella di un “mero ospite”, come tale, allontanabile in qualsiasi momento.

La decisione: La Corte di Cassazione, investita della questione, conferma, sostanzialmente, le decisioni delle Corti Territoriali (che, in linea di massima, avevano accolto le istanze dell’uomo), tuttavia, qualifica la relazione del convivente more uxorio con l’immobile non come compossesso, bensì come detenzione qualificata.

Queste, in sintesi, le considerazioni della Corte:

– Al convivente che goda con il partner possessore iure proprietatis del medesimo bene va riconosciuta una posizione “riconducibile alla detenzione autonoma (qualificata dalla stabilità della relazione familiare e protetta dal rilievo che l’ordinamento a questa riconosce (richiamando Cass. n. 9786/2012);

La convivenza more uxorio determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su un interesse proprio ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità

– Ricondurre la posizione del convivente more uxorio a quella dell’ospite o del tollerato, sarebbe contrario alla rilevanza giuridica ed alla dignità stessa del rapporto di convivenza di fatto che da vita, anch’essa, ad un autentico consorzio familiare, investito di funzioni promozionali.

Vi sono ipotesi normative in cui viene espressamente considerata anche la convivenza more uxorio (es. la facoltà di astenersi dal deporre concessa al convivente dell’imputato);

– La Corte Costituzionale, (nn. 237/1986 e 138/2010), ha affermato che un consolidato rapporto, ancorchè di fatto, non appare – anche a sommaria indagine – costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.)”

– Dal riconoscimento di “formazione sociale” della convivenza more uxorio, sono derivati ulteriori corollari, quali, a) l’esclusione del diritto del convivente more uxorio di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso delle convivenza (Cass. 13330/2009); b) il riconoscimento del diritto del convivente al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per la morte del compagno o della compagna provocata da un terzo (23725/2008); c) la rilevanza alla convivenza intrapresa dal coniuge separato o divorziato ai fini dell’assegno di mantenimento o di quello di divorzio (Cass. 3923/2012);

– la distinzione tra matrimonio e convivenza more uxorio (che pure, secondo la Corte, sussiste), non può, comunque, comportare che che, in una unione libera che tuttavia abbia assunto – per durata, stabilità, esclusività e contribuzione – i caratteri di comunità familiare, il rapporto del soggetto con la casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell’altro convivente, si fondi su un titolo giuridicamente irrilevante quale l’ospitalità, anzichè sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare, come tale anche socialmente riconoscibile.

Conclude la Corte, alla luce di quanto sopra espresso, che il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che, cessata l’affectio, intenda recuperare, com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare il partner e di concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione.

 * * *

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

L.L., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. BENINCASA MAURIZIO, elettivamente domiciliata nel suo studio in Roma, via di Villa Massimo, n. 33;

– ricorrente –

contro

M.G., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale in calce al controricorso, dall’Avv. GAROFALO GIUSEPPE, elettivamente domiciliato nel suo studio Roma, via Ortigara, n. 10 (studio Avv. L. Farronato);

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 512 in data 31 gennaio 2006;

Udita, la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 12 febbraio 2013 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti;

udito l’Avv. Maurizio Benincasa;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per l’accoglimento del primo e del secondo motivo del ricorso, assorbiti gli altri.

Svolgimento del processo

1. – Il Tribunale di Roma, in accoglimento della domanda possessoria presentata da M.G. in data 6 luglio 1998, accertato il lamentato spoglio, condannò L.L. a reintegrare il ricorrente nel compossesso dell’appartamento sito in (OMISSIS), oltre al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede.

2. – Con sentenza depositata in data 31 gennaio 2006, la Corte d’appello ha confermato la sentenza di primo grado, rigettando il gravame della L..

La Corte territoriale – premesso che il M. aveva venduto in data 24 marzo 1998 l’immobile in questione alla L., sua convivente more uxorio, con rogito notarile per notar Alfonsi di Latina – ha confermato la qualificazione della situazione di fatto del M. in termini di compossesso e non di mera detenzione.

Infatti, nonostante la dichiarazione di trasferimento del possesso resa dallo stesso M. nell’atto di alienazione, per un verso la convivenza more uxorio era continuata anche dopo il 24 marzo 1998 e, per l’altro verso, il M. aveva continuato ad utilizzare l’appartamento in questione (al quale aveva libero accesso, avendone le chiavi e tenendovi mobili ed effetti personali), sia pernottandovi, sia usandolo in appoggio ad altro sottostante appartamento in cui esercitava la professione medica.

Il giudice di secondo grado ha poi sottolineato come la L. avesse “colto l’occasione per estromettere il M. dal compossesso dell’appartamento” a seguito dell’intervento dei carabinieri, da lei stessa richiesto per il sospetto della flagrante commissione di reati. La consegna delle chiavi dell’immobile, da parte del M., ai militari non poteva considerarsi indice della volontà di questo di dismettere il compossesso, essendo dettata dal timore conseguente alla prospettazione di ipotesi criminose (tentativo di furto o violazione di domicilio) nelle quali avrebbe potuto altrimenti incorrere.

La Corte romana ha infine rigettato la censura in ordine alla inammissibilità della domanda di condanna al risarcimento dei danni, formulata dal M. soltanto in sede di precisazione delle conclusioni, rilevando che la tardività della domanda risultava comunque sanata dall’accettazione implicita della stessa, in assenza di un rifiuto del contraddittorio, avendo anzi la L. interloquito sul merito della richiesta risarcitoria nella comparsa conclusionale di primo grado.

3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la L. ha proposto ricorso, con atto notificato il 2 marzo 2007, sulla base di quattro motivi.

Vi ha resistito con controricorso il M..

La ricorrente ha depositato una memoria illustrativa in prossimità dell’udienza.

Motivi della decisione

1. – Va, in primo luogo, respinta l’eccezione preliminare, sollevata dalla difesa del controricorrente, di inammissibilità dei motivi di ricorso perchè non corredati dai conclusivi quesiti di diritto.

Infatti, la sentenza impugnata è stata depositata il 31 gennaio 2006, e quindi il ricorso per cassazione proposto contro di essa non ricade nell’ambito di operatività dell’art. 366 bis c.p.c., inserito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, a far data dal 2 marzo 2006.

2. – Con il primo motivo, rubricato “violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141, 1142, 1143, 1144, 1146, 1168, 1417, 2696, 2721, 2722, 2723 e 2729 c.c., e artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″, si contesta la sussistenza della situazione di compossesso in capo al M., poichè non sarebbe stata tenuta in adeguata considerazione la dichiarazione, resa nell’atto di compravendita del 24 marzo 1998, di trasferimento del possesso alla L.. Ad avviso della ricorrente, la situazione di compossesso non sarebbe compatibile con la cessione della proprietà tramite stipula di contratto di compravendita, che sottintenderebbe l’inesistenza di qualsiasi altra situazione di fatto in capo all’alienante. Erroneamente la Corte di merito avrebbe “dato ingresso a una prova testimoniale volta a dimostrare la simulazione parziale dell’atto pubblico di vendita… nella parte in cui l’alienante si sarebbe in realtà riservato il possesso ed il compossesso”.

Con il secondo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141, 1142, 1143, 1144, 1146, 1168 e 2727 c.c., e artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto controverso – la presunta convivenza more uxorio tra le parti – e ritenuto decisivo ai fini del decidere, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) si sostiene che dalle allegazioni acquisite all’istruttoria emergerebbe “che la situazione personale tra le parti aveva avuto termine prima dei fatti di causa e, soprattutto, che essa aveva luogo e sfondo non nell’appartamento (OMISSIS), ma in quello di proprietà di M.G. e sito in (OMISSIS)”. Ad avviso della ricorrente, la situazione di compossesso non potrebbe dedursi dalla convivenza more uxorio fra le parti, giacchè la libera convivenza è una unione basata sulla affectio e, in mancanza dei caratteri propri del matrimonio, non si potrebbero ricollegare ad essa gli effetti giuridici propri del possesso. La situazione di fatto del convivente more uxorio sarebbe caratterizzata da precarietà, e la sua relazione con la cosa sarebbe assimilabile a quella di un ospite. In ogni caso, il compossesso del M., anche ove fosse mai esistito, si sarebbe estinto automaticamente per effetto della fine della convivenza, perchè l’unione more uxorio della coppia cesserebbe di produrre i suoi effetti con la semplice manifestazione di volontà del convivente di volerla sciogliere o con attività incompatibili con la prosecuzione del rapporto.

Con il terzo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1147, 1168, 2699, 2700, 2701 e 2702 c.c., e artt. 115, 116, 221, 246 e 247 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio – il contenuto del verbale dei Carabinieri del 19 luglio 1998 -, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) si sostiene che il giudice, pur in assenza di querela di falso, avrebbe contraddetto quanto scritto nel verbale dei carabinieri, avente forza di atto pubblico in ordine alle circostanze della riconsegna delle chiavi di casa e a talune affermazioni della L.. La L. non avrebbe ingenerato nei carabinieri il sospetto che il M. fosse un ladro. Ci si lamenta anche della mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta inattendibilità delle testimonianze dello zio e del padre della ricorrente. Il giudice di secondo grado lascerebbe tra l’altro intendere la malafede della L. relativamente alla circostanza in cui questa richiese l’intervento dei carabinieri. Poichè mancherebbero le prove che l’intervento delle forze dell’ordine sia stato strumentalizzato dalla L. ai fini dello spoglio del M., si doveva presumere la buona fede della ricorrente, che in ogni caso è sufficiente sussista al momento dell’acquisto, ai sensi dell’art. 1147 c.c..

2.1. – I tre motivi – i quali, per la loro stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono infondati.

2.2. – Nella giurisprudenza di questa Corte è stato più volte affermato il principio secondo cui il solo fatto della convivenza, anche se determinata da rapporti intimi, non pone di per sè in essere nelle persone che convivono con chi possiede il bene un potere sulla cosa che possa essere configurato come possesso autonomo sullo stesso bene o come una sorta di compossesso (Sez. 2^, 2 ottobre 1974, n. 2555; Sez. 2^, 14 giugno 2001, n. 8047). In questa prospettiva, il consolidamento della relazione tra i conviventi non darebbe luogo, in capo al soggetto non proprietario dell’immobile, ad una situazione tutelabile con l’azione di spoglio. Il convivente non proprietario sarebbe relegato nell’indifesa posizione dell’ospite, del tollerato o del detentore per ragioni di servizio.

Non mancano, tuttavia, pronunce di segno diverso. Da un lato, infatti, ma in relazione a “persone legate da rapporti di parentela o di affinità e conviventi”, si è osservato che “un rapporto di condetenzione tutelabile con l’azione di spoglio anche nei riguardi del condetentore titolare del rapporto di locazione non si può escludere” (Sez. 2^, 7 ottobre 1971, n. 2753); dall’altro, nel negarsi la rilevanza della disponibilità della rea in capo al convivente more uxorio ai fini dell’usucapione, si è tuttavia sottolineato (Sez. 2^, 14 giugno 2012, n. 9786) che al convivente che goda con il partner possessore iure proprietatis del medesimo bene va riconosciuta una posizione “riconducibile alla detenzione autonoma (qualificata dalla stabilità della relazione familiare e protetta dal rilievo che l’ordinamento a questa riconosce)”.

2.3. – Il Collegio intende porsi in continuità con l’indirizzo espresso dalla sentenza da ultimo citata.

La convivenza more uxorio determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su un interesse proprio ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità; conseguentemente, l’estromissione violenta o clandestina del convivente dall’unità abitativa, compiuta dal partner, giustifica il ricorso alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio nei confronti dell’altro quand’anche il primo non vanti un diritto di proprietà sull’immobile che, durante la convivenza, sia stato nella disponibilità di entrambi.

La tesi secondo cui la relazione di fatto del convivente sarebbe un mero strumento del possesso o della detenzione di altro soggetto, paragonabile a quella dell’ospite o del tollerato, è contraria alla rilevanza giuridica e alla dignità stessa del rapporto di convivenza di fatto, la quale – con il reciproco rispettivo riconoscimento di diritti del partner, che si viene progressivamente consolidando nel tempo, e con la concretezza di una condotta spontaneamente attuata – da vita, anch’essa, ad un autentico consorzio familiare, investito di funzioni promozionali.

Pur mancando una legge organica sulla convivenza non fondata sul matrimonio, il legislatore nazionale non ha mancato di disciplinare, e con accresciuta intensità in tempi recenti, settori di specifica rilevanza della stessa, anche al di là della filiazione (dove l’eliminazione di ogni residua discriminazione tra i figli è stata sancita, nel rispetto dell’art. 30 Cost., dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219). Basti pensare – sole per citare alcuni esempi – all’art. 199 c.p.p., per la facoltà di astenersi dal deporre concessa al convivente dell’imputato; agli artt. 342 bis e 343 ter c.c., introdotti dalla L. 4 aprile 2001, n. 154, sull’estensione al convivente degli ordini di protezione contro gli abusi familiari;

alla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, cosi come sostituito ad o-pera della L. 28 marzo 2001, n. 149, per gli effetti della convivenza precedente al matrimonio sulla stabilità del vincolo ai fini dell’adozione; all’art. 408 c.c., cosi come novellato dalla L. 9 gennaio 1994, n. 6, per la scelta dell’amministratore di sostegno, che può cadere anche sulla persona stabilmente convivente; al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 129, in tema soggetti che non possono essere considerati terzi e che non hanno diritto ai benefici derivanti dall’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, limitatamente ai danni alle cose.

Soprattutto, è stata la giurisprudenza costituzionale a sottolineare che “un consolidato rapporto, ancorchè di fatto, non appare – anche a sommaria indagine – costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.)” (sentenza n. 237 del 1986); e a ribadire, di recente, che “per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” (sentenza n. 138 del 2010).

In questo contesto si colloca la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge sulla locazione d’immobili urbani 27 luglio 1978, n. 392 (sentenza n. 404 del 1988), con cui la Corte costituzionale ha posto il convivente more uxorio tra i successibili nella locazione, in caso di morte del conduttore, e ha stabilito che il convivente medesimo, affidatario di prole naturale, succede al conduttore che abbia cessato la convivenza.

La qualità di formazione sociale della convivenza more uxorio (Cass., Sez. 3^, 19 giugno 2009, n. 14343) ha consentito a questa Corte di guardare alla stessa come fonte di doveri morali e sociali di ciascun convivente nei confronti dell’altro; con l’effetto, tra l’altro: (a) di escludere il diritto del convivente more uxorio di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso delle convivenza (Sez. 3^, 20 gennaio 1989, n. 285; Sez. 2^, 13 marzo 2003, n. 3713; Sez. 3^, 15 maggio 2009, n. 11330); (b) di riconoscere il diritto del convivente al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per la morte del compagno o della compagna provocata da un terzo (Sez. 3^, 28 marzo 1994, n. 2988; Sez. 3^, 16 settembre 2008, n. 23725); (c) di dare rilevanza alla convivenza intrapresa dal coniuge separato o divorziato ai fini dell’assegno di mantenimento o di quello di divorzio (Sez. 1^, 10 novembre 2006, n. 24056; Sez. 1^, 10 agosto 2007, n. 17643; Sez. 1^, 11 agosto 2011, n. 17195; Sez. 1^, 12 marzo 2012, n. 3923).

2.4. – Poichè, dunque, la famiglia di fatto è compresa tra le formazioni sociali che l’art. 2 Cost., considera la sede di svolgimento della personalità individuale, il convivente gode della casa familiare, di proprietà del compagno o della compagna, per soddisfare un interesse proprio, oltre che della coppia, sulla base di un titolo a contenuto e matrice personale la cui rilevanza sul piano della giuridicità è custodita dalla Costituzione, si da assumere i connotati tipici della detenzione qualificata.

2.5. – Ciò, beninteso, non significa – come assume la ricorrente – pervenire ad un completo pareggiamento tra la convivenza more uxorio ed il matrimonio, contrastante con la stessa volontà degli interessati, che hanno liberamente scelto di non vincolarsi con il matrimonio proprio per evitare, in tutto o in parte, le conseguenze legali che discendono dal coniugio.

E’ e rimane infatti ferma la diversità della convivenza di fatto, fondata sull’affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti, rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio; come pure la distinta considerazione dei rapporti personali e patrimoniali di coppia nelle due diverse situazioni, stante il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi ed il più ampio rilievo, nel rapporto di coniugio, alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale (Corte cost., sentenza n. 8 del 1996).

Ma questa distinzione non comporta che, in una unione libera che tuttavia abbia assunto – per durata, stabilità, esclusività e contribuzione – i caratteri di comunità familiare, il rapporto del soggetto con la casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell’altro convivente, si fondi su un titolo giuridicamente irrilevante quale l’ospitalità, anzichè sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare, come tale anche socialmente riconoscibile.

D’altra parte, l’assenza di un giudice della dissoluzione del menage non consente al convivente proprietario di ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione, perchè il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che, cessata l’affectio, intenda recuperare, com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare il partner e di concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione.

2.6. – Nella specie la Corte d’appello – pur discorrendo, nei passaggi argomentativi, di compossesso del convivente anzichè di detenzione qualificata autonoma fondata su un negozio giuridico di tipo familiare – è pervenuta, comunque, ad una soluzione della controversia conforme al diritto, riconoscendo in capo al convivente non proprietario la legittimazione ad agire in reintegrazione, ex art. 1168 c.c., al fine di essere riammesso, dopo uno spoglio violento, nell’abitazione ove si è svolta la relazione familiare di fatto, e negando che in costanza di coabitazione e convivenza more uxorio nello stesso immobile possa parlarsi di mera ospitalità o di tolleranza nei confronti del partner non proprietario.

Ed a tale conclusione in punto di diritto la Corte territoriale è giunta dopo avere rilevato, con congruo e logico apprezzamento delle risultanze di causa, previo adeguato giudizio sull’attendibilità delle testimonianze, e confermando la valutazione al riguardo già espressa dal Tribunale:

che la convivenza more uxorio tra il M. e la L. era proseguita fino alla data del 17 giugno 1998, epoca dei fatti di causa;

che la relazione di fatto tra i due partners rispetto all’immobile di via (OMISSIS) (di comune godimento e di libera utilizzazione) era rimasta immutata per tutto il periodo della convivenza, anche dopo che, in data 24 marzo 1998, il M. aveva venduto l’appartamento in questione alla sua convivente (con un atto nel quale è menzionata, oltre al trasferimento della proprietà, anche la cessione del possesso); che la L. aveva ottenuto fraudolentemente la riconsegna delle chiavi davanti ai carabinieri, in caserma, ove i contendenti si erano recati, inducendo in errore i militari, il cui intervento era stato chiesto per il timore della presenza di ladri in casa: invece di chiarire, doverosamente, che non si trattava di un ladro, bensì del convivente (che non si era introdotto in casa furtivamente, ma utilizzando, come sempre, le chiavi di cui era in possesso), costei aveva fatto credere ai carabinieri, esibendo una copia del contratto di acquisto dell’immobile, di trovarsi di fronte ad un intruso, ad un usurpatore che aveva commesso violazione di domicilio a suo danno; che il M. aveva acceduto, per motivi di opportunità, alla richiesta di consegna delle chiavi alla L., senza che ciò, tuttavia, significasse minimamente volontaria abdicazione e rinuncia alla situazione di fatto, cioè restituzione spontanea e libera determinazione al rilascio.

Nel contestare la ricostruzione data dal giudice del merito, la ricorrente, pur lamentando formalmente una plurima violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, tende, in realtà, ad una (non ammissibile in sede di legittimità) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai definitivamente accertati in sede di merito.

Sotto questo profilo la ricorrente, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, invoca, piuttosto, una diversa lettura delle risultanze procedimentali cosi come accertate e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo cosi all’impugnata sentenza censure che non possono trovare ingresso in questa sede, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

Questa diversa ricostruzione del fatto è prospettata dalla ricorrente ora valorizzando la clausola del contratto di compravendita inter partes di trasferimento della piena proprietà e del possesso dell’immobile alla L., senza considerare che, ai fini della tutela possessoria, quel che conta è la situazione di fatto e che nella specie, pur dopo la vendita, il M. aveva continuato ad abitare e a convivere nell’immobile di cui è causa, tenendovi anche effetti personali, mobili e strumenti di lavoro di sua proprietà; ora sostenendo (ma soltanto attraverso un generico richiamo a non meglio precisati fatti pacifici o non contestati) che la convivenza tra il M. e la L. si sarebbe svolta in una casa in Provincia di Latina, e non nell’immobile di (OMISSIS); infine richiamando il verbale dei carabinieri relativo alla consegna delle chiavi da parte del M., senza tuttavia tener conto che la Corte del merito non ne ha prescisso, ma ha ritenuto, con apprezzamento tipicamente di fatto, che l’intervento dei carabinieri era stato strumentalizzato dalla L. per attuare una estromissione violenta del compagno e che questi aveva riconsegnato le chiavi alla presenza dei militari spinto non dalla volontà di dismissione della sua situazione di fatto, ma dal timore della prospettazione di ipotesi criminose.

In definitiva, la ricorrente sollecita questa Corte ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto si come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, cosi mostrando di anelare ad una surretti-zia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza processuale, quanto ancora le opinioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa potessero ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità.

3. – Con il quarto motivo (violazione o falsa applicazione degli artt. 183 e 184 c.p.c., art. 101 c.p.c.; art. 111 Cost.; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) si censura che la Corte d’appello abbia confermato la ritualità della domanda di risarcimento del danno, nonostante questa fosse stata proposta soltanto all’udienza di precisazione delle conclusioni. La ricorrente evidenzia la non configurabilità di un’accettazione implicita della tardiva richiesta di risarcimento del danno. Non si potrebbe in alcun modo rintracciare nella comparsa conclusionale alcun riferimento da cui possa trarsi un’accettazione del contraddittorio in merito alla richiesta della controparte di risarcimento del danno, e di conseguenza una possibile sanatoria della sua tardiva proposizione.

3.1. – Il motivo è fondato.

E’ assorbente rilevare che nel vigore del regime delle preclusioni di cui al nuovo testo degli artt. 183 e 184 c.p.c., introdotto dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, ratione temporis applicabile, la questione della novità della domanda risulta del tutto sottratta alla disponibilità delle parti, e pertanto pienamente ed esclusivamente ricondotta al rilievo officioso del giudice, essendo l’intera trattazione improntata al perseguimento delle esigenze di concentrazione e speditezza che non tollerano – in quanto espressione di un interesse pubblico – l’ampliamento successivo del thema decidendi, anche se su di esso si venga a registrare il consenso del convenuto (Cass., Sez. 2^, 30 novembre 2011, n. 25598).

Ha pertanto errato la Corte d’appello a confermare la rituale introduzione della domanda risarcitoria, formulata in primo grado soltanto in sede di precisazione delle conclusioni all’udienza del 17 giugno 1999, dando rilievo all’implicita accettazione del contraddittorio da parte della convenuta.

4. – Il ricorso, rigettato nei primi tre motivi, è accolto limitatamente al quarto mezzo.

Cassando senza rinvio la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta, va dichiarata inammissibile la domanda di condanna al risarcimento del danno.

Le altre statuizioni della sentenza della Corte d’appello, ivi compresa quella relativa alle spese, restano ferme.

Le spese del giudizio di cassazione devono essere compensate, sia per la complessità delle questioni trattate, sia perchè il ricorso è accolto soltanto in parte.

P.Q.M

La Corte rigetta i primi tre motivi del ricorso e accoglie il quarto;

cassa senza rinvio la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e, ferme le altre statuizioni, dichiara inammissibile la domanda risarcitoria. Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2013

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