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La responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata è fonte da diverso tempo di discussioni e revirement giurisprudenziali, soprattutto con riferimento alla platea dei soggetti danneggiati dalla condotta colposa del medico.

Come noto, il fondamento di tale ipotesi di medical liability risiede nella lesione della facoltà della madre di decidere di interrompere la gravidanza nei casi previsti dalla legge 194/78 (dopo i primi novanta giorni, solo sela gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna).

Nello specifico, gli Ermellini hanno statuito che “in tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, l’inadempimento del medico rileva in quanto impedisce alla donna di compiere la scelta di interrompere la gravidanza. Infatti la legge, in presenza di determinati presupposti, consente alla donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al proprio stato di salute e rende corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto”.

Da alcuni anni i Giudici di legittimità hanno esteso la tutela risarcitoria al padre, ritenendo che il negozio intercorrente tra la madre e il medico sia configurabile come contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo (cfr., Cass. n. 6735/02; Cass. n. 14488/04 e, recentemente, Cass. n. 2354/10).

Ora, con la recente pronuncia n. 16754/12, la Suprema Corte ha ampliato ulteriormente la platea dei soggetti danneggiati nel caso di omessa diagnosi di malformazioni fetali, ricomprendendovi lo stesso neonato, nonché i suoi fratelli.

Per quanto riguarda quest’ultimi, la qualifica di danneggiati consegue alle stesse considerazioni che hanno portato a riconoscere il risarcimento del danno a favore del padre.

Infatti, non sembra potersi revocare in dubbio la circostanza per cui gli stessi rientrino a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta.

Il pregiudizio subito è stato efficacemente sintetizzato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento: “…Danno intanto consistente, tra l’altro (come meglio si avrà modo di specificare di qui a breve, esaminando la posizione di M. O.) nella inevitabile, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione”.

Ben diverso è invece il discorso per quanto concerne il neonato.

Mentre, infatti, considerazioni di tipo extragiuridico e prima ancora, di logica materiale, spingerebbero nella direzione della configurabilità di un danno a carico dello stesso (appare, infatti, illogico che il soggetto colpito da un evento illecito non subisca alcun danno, mentre i membri della famiglia si), in giurisprudenza si è spesso sostenuta la tesi opposta, basata sull’inesistenza del cd. “diritto a non nascere se non sano”.

Con la sentenza n. 16754/12 i Giudici di legittimità hanno, invece, ritenuto fondata anche la domanda di risarcimento dei danni subiti iure proprio dal neonato.

Il ragionamento della Corte muove da un diverso punto di vista rispetto al passato, così da superare l’impasse determinata dall’inesistenza del cd. “diritto a non nascere se non sano”: “Il vulnus lamentato da parte del minore malformato, difatti, non è la malformazione in sé considerata – non è, in altri termini, l’infermità intesa in senso naturalistico (o secondo i dettami della scienza medica), bensì lo stato funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata intese come proiezione dinamica dell’esistenza che non è semplice somma algebrica della vita e dell’handicap, ma sintesi di vita ed handicap, sintesi generatrice di una vita handicappata”.

La legittimità dell’istanza risarcitoria iure proprio del minore deriva, pertanto, da una omissione colpevole cui consegue non il danno della sua esistenza, né quello della malformazione di sé sola considerata, ma la sua stessa esistenza diversamente abile, che discende a sua volta dalla possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione con il feto non di rappresentante-rappresentato, ma di includente-incluso”.

Non c’è, quindi, più differenza, a parere della Corte, tra la fattispecie dell’errore medico che non abbia evitato l’handicap evitabile, ovvero che tale handicap abbia cagionato, e l’errore medico che non ha evitato (o ha concorso a non evitare) la nascita malformata (evitabile in conseguenza della facoltà di scelta della gestante derivante da una espressa disposizione di legge).

Nel caso di specie era emerso, nel corso del giudizio, che la signora XXX si era rivolta al medico, chiedendo espressamente di essere sottoposta a tutti gli accertamenti necessari ad escludere malformazioni del feto, ritenendo tale circostanza quale condizione imprescindibile per la prosecuzione della gravidanza.

Il medico, invece, aveva fatto eseguire alla gestante il solo “Tritest”, omettendo di prescrivere accertamenti più specifici al fine di escludere alterazioni cromosomiche del feto.

Tale test non era però ritenuto sufficiente, dato l’altissimo margine di errore cui era sottoposto (pari al 40% dei cd. “falsi negativi”), così da essere considerato più che un vero e proprio esame diagnostico, un mero screening del tutto generico quanto alle probabilità di malformazione fetale.

In conclusione, la Suprema Corte ha inquadrato la risarcibilità del pregiudizio subito dal neonato all’interno della categoria dei danni futuri, di quei danni, cioè, che al tempo della consumazione della condotta illecita non si sono ancora prodotti, pur in presenza di elementi presuntivi idonei a ritenere che il pregiudizio si verificherà (in argomento, funditus, Cass. 4 febbraio 1992, n. 1147).

Su questo tema vedi anche Danni risarcibili ai genitori in caso di errate informazioni sul feto

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 10 gennaio – 2 ottobre 2012, n. 16754

(Presidente: Dott. Alfonso Amatucci – Estensore: Dott. Giacomo Travaglino)

…omissis…

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Nel febbraio del 1999 M. B. O. e M. O., in proprio e nella qualità di genitori esercenti potestà sulle figlie minori G., L. e M., convennero in giudizio dinanzi al tribunale di Treviso il ginecologo P. D. e la USSL 8 di X., esponendo:

· Che la signora B., appena consapevole del proprio stato di gravidanza, si era rivolta al dott. D. chiedendo di essere sottoposta a tutti gli accertamenti necessari ad escludere malformazioni del feto;

· Che la nascita di un bimbo sano era stata rappresentata al sanitario come condizione imprescindibile per la prosecuzione della gravidanza;

· Che il dott. D. aveva proposto e fatto eseguire alla gestante il solo “Tritest”, omettendo di prescrivere accertamenti più specifici al fine di escludere alterazioni cromosomiche del feto;

· Che nel settembre del 1996 era nata la piccola M., affetta da sindrome di Dawn.

Il ginecologo, nel costituirsi, contestò analiticamente tutti gli addebiti, chiedendo nel contempo l’autorizzazione alla chiamata in causa della propria compagnia assicuratrice.

Si costituì in giudizio anche l’azienda sanitaria, lamentando, in rito, la nullità del libello introduttivo attoreo (per mancata specificazione delle ragioni di fatto e di diritto sui quali era fondata la domanda risarcitoria) e la carenza di legittimazione attiva delle minore, eccependo poi, nel merito, il regime – cd. in extra moenia – nel quale il medico aveva, da libero professionista, assistito l’attrice. L’azienda contestò, ancora nel merito, la stessa fondatezza della pretesa risarcitoria, per resistere alla quale chiese anch’essa il differimento della prima udienza, onde chiamare in causa le proprie compagnie assicurative succedutesi nel rapporto di garanzia durante l’anno 1996.

L’Assitalia (compagnia assicuratrice del dott. D.), nel costituirsi, aderì in toto alle difese del proprio assicurato.

Le Assicurazioni Generali (originaria assicuratrice della USL) eccepì, all’atto della costituzione in giudizio, la cessazione degli effetti della polizza stipulata con la struttura sanitaria nel 30 giugno 1996; declinò ogni responsabilità vicaria per i fatti successivi a tale data; fece proprie, nel merito, le difese della propria garantita – salva richiesta, in caso di condanna del sanitario, di essere da questi rimborsata di quanto eventualmente tenuta a corrispondere agli attori.

La RAS (succeduta alle Generali nel rapporto assicurativo con l’unità sanitaria) eccepì, in limine, la non operatività della polizza, per essere la vicenda di danno lamentata dagli attori riferibile ad un’epoca anteriore alla data del suo subingresso alla precedente compagnia, contestando poi nel merito le pretese risarcitorie nell’an, nel quantum, nel quivis.

Il giudice di primo grado, previa declaratoria di difetto di legittimazione attiva della minore M. O., respinse la domanda dei genitori e dei fratelli.

2.- La corte di appello di Venezia, investita del gravame proposto dagli attori in prime cure, lo rigettò:

– sul punto del ritenuto difetto di legittimazione attiva di M. O., facendo propri alcuni passi della motivazione della sentenza 14888/2004 con la quale questa Corte di legittimità aveva respinto una analoga richiesta, affermando il principio di diritto a mente del quale verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto di informazione, messa in condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto;

– con riferimento alla pretesa risarcitoria dei familiari, fondata sul preteso inadempimento contrattuale del sanitario, ritenendo quest’ultimo del tutto esente da colpa.

Nel rigettare la detta pretesa, la corte lagunare osserverà, in particolare:

– che, nella specie, la sola indicazione del cd. “tritest” quale indagine diagnostica funzionale all’accertamento di eventuali anomalie fetali doveva ritenersi del tutto giustificata, alla luce dell’età della signora B. (al tempo dei fatti soltanto ventottenne) e dell’assenza di familiarità con malformazioni cromosomiche, onde l’esecuzione di un test più invasivo come l’amniocentesi (che la partoriente conosceva “per sentito dire”) avrebbe potuto essere giustificata soltanto da una esplicita richiesta, all’esito di un approfondito colloquio con il medico sui limiti e vantaggi dei test diagnostici, mentre non risultava né provato né allegata la richiesta di sottoposizione a tale esame;

– che l’accertamento di una malformazione fetale “non è di per sé sufficiente a legittimare un’interruzione di gravidanza”, posto che, nella specie, tale interruzione sarebbe stata praticata nel secondo trimestre, mentre la sussistenza dei relativi presupposti di legge, ex art. 6 della legge n. 194/1978 non era neppure stata adombrata dagli attori, onde nessuna prova poteva dirsi legittimamente acquisita al processo in ordine alla esposizione della donna a grave pericolo per sua la vita o per la sua salute fisica o psichica in caso di prosecuzione della gravidanza nella consapevolezza della malformazione cromosomica del feto;

– che lo “spostamento” della quaestio iuris sul versante della carenza di informazione, operato in sede di appello, doveva ritenersi del tutto estraneo e diverso rispetto alla fattispecie sì come originariamente rappresentata in funzione risarcitoria: non era stata, difatti, censurata, con il libello introduttivo, la privazione del diritto di scelta della puerpera a causa di esami fatti male o non fatti, bensì l’inadempimento della prestazione sanitaria richiesta dalla signora B. al dott. D..

3.- La sentenza è stata impugnata da tutti i componenti della famiglia O. con ricorso per cassazione articolato in sei motivi.

Resistono con controricorso P. D., le Assicurazioni Generali, l’Ina Assitalia, L’Allianz, l’Azienda sanitaria USSL 8 di Y..

Le parti ricorrenti e le resistenti Assitalia e Allianz, hanno depositato memorie illustrative.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Devono essere in limine esaminate le due preliminari questioni processuali poste al collegio dalla difesa della controricorrente USSL 8.

Entrambe appaiono prive di pregio.

– Quanto alla erronea spendita della veste di rappresentanti legali delle due figlie – divenute nelle more maggiorenni – da parte dei genitori (circostanza che, in sé considerata, renderebbe il ricorso inammissibile, secondo quanto opinato da Cass. ss.uu. 15783/2005), va rilevato come, al di là ed a prescindere da tale, erronea qualificazione a loro stessi ascritta da parte dei coniugi B./O., tanto L. quanto G. B. hanno personalmente sottoscritto la procura speciale apposta in calce al ricorso per cassazione, onde la impropria indicazione di una (ormai spirata) rappresentanza legale dei genitori si risolve, ai fini della regolare costituzione in giudizio, in un irrilevante flatus vocis, atteso che il nome delle ricorrenti viene legittimamente indicato e speso in proprio dal difensore altrettanto legittimamente fornito di procura alle liti;

– Quanto alla pretesa carenza di poteri rappresentativi in appello degli stessi coniugi O. riguardo alla figlia L., la vicenda deve ritenersi coperta da giudicato implicito ai sensi del disposto dell’art. 346 c.p.c.: la corte territoriale, difatti, dopo aver affrontato la questione della legittimazione attiva – escludendola – di M. O. (ff. 9 ss. della sentenza impugnata), rigetterà l’appello nel merito, senza affrontare il tema (pur rilevabile ex officio, essendo stato sollevato, a torto o a ragione, una questione di legitimatio ad causam e non di mera titolarità del rapporto sostanziale) della rappresentanza dei genitori con riferimento alla posizione processuale di L. O. – la cui domanda verrà conseguentemente rigettata per motivi di merito (il cui esame presuppone positivamente superata il vaglio delle questioni pregiudiziali e/o preliminari di rito da parte del giudice procedente). Sarebbe stato pertanto necessario proporre, da parte degli interessati, un ricorso incidentale avente ad oggetto il relativo capo implicito della sentenza; impugnazione nella specie non proposta, senza che la relativa eccezione contenuta nel controricorso possa ritenersi “convertita” in censura incidentale per l’assenza dell’essenziale requisito dell’istanza di riforma della sentenza di secondo grado impugnata.

Non merita, infine, accoglimento l’eccezione, sollevata da più d’una della parti controcorrenti, di inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 bis c.p.c. nella formulazione anteriore alla novella del 2009, atteso che la sentenza impugnata risulta depositata il 2 novembre 2010 (epoca successiva all’abrogazione della norma sui quesiti di diritto, pertanto inapplicabile nella specie ratione temporis), mentre la doglianza di difetto autosufficienza del ricorso appare contraddetta ictu oculi dalla semplice lettura dell’odierna impugnazione (cui, piuttosto, potrebbero al più muoversi censure – peraltro irrilevanti sul piano giuridico – di segno contrario).

2.- Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 345 e 346 c.p.c. – Vizio logico di motivazione.

Il motivo è fondato.

Risulta espresso e non equivoco, nel corpo dell’atto di citazione di primo grado (che i ricorrenti riportano, per quanto rilevante in parte qua, al folio 15 dell’odierno atto di impugnazione), il riferimento “alla valutazione sul livello di consenso informato che il referto relativo al tritest determina, non essendovi alcun modo per una paziente incolta di medicina di riuscire a comprendere la relativa finalità, e che ad esso non era possibile affidarsi con certezza per sapere se vi fossero o non vi fossero le paventate anomalie”; onde il successivo atto di appello del tutto legittimamente denuncerà (a fronte di una sentenza di primo grado che inesattamente imputa all’attrice “di non aver dimostrato di avere espressamente richiesto l’effettuazione di accertamenti invasivi diversi”) la mancata informazione, da parte dei competenti sanitari, circa la complessiva attendibilità del test prescelto a dispetto della precisa richiesta della gestante di venir resa partecipe di eventuali malattie genetiche del feto e della altrettanto espressa intenzione, in tal caso, di non portare a termine la gravidanza.

A tanto consegue la impredicabilità di qualsivoglia “spostamento del thema decidendum dal primo al secondo grado” erroneamente rilevato dalla corte di appello, la cui pronuncia deve, sul punto, essere cassata.

3.- Con il secondo motivo, si denuncia:

a) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 c.c. per mancato accertamento dell’inadempimento contrattuale rispetto alla richiesta di diagnosi e al dovere di fornirla e di dare corretta informazione circa l’inidoneità degli esami previsti in funzione della diagnosi richiesta; mancata motivazione sul punto;

b) violazione dell’art. 32 comma 1 e 2 Cost.

c) violazione dell’art. 2697 c.c. in ordine al riparto degli oneri probatori relativi al’adempimento del dovere di informazione preventiva circa i limiti oggettivi di affidabilità delle metodiche alternative alla diagnosi suggerite

Il motivo è fondato.

Risulta provato (anche all’esito della mancata contestazione, sul punto, da parte del medico oggi resistente, non potendosi ritenere tale la generica affermazione di stile, contenuta nell’atto di costituzione in giudizio del dott. D., volta alla “contestazione analitica di tutti gli assunti di parte attrice”) che la gestante avesse espressamente richiesto un accertamento medico-diagnostico per esser resa partecipe delle eventuali malformazioni genetiche del feto, così da poter interrompere la gravidanza.

Oggetto del rapporto professionale medico-paziente doveva, pertanto, ritenersi, nella specie, non un accertamento “qual che esso fosse”, compiuto all’esito di una incondizionata e incomunicata discrezionalità da parte del sanitario, bensì un accertamento doppiamente funzionale alla diagnosi di malformazioni fetali e (condizionatamente al suo risultato positivo) all’esercizio del diritto di aborto.

Ne consegue la non conformità a diritto della motivazione del giudice territoriale nella parte in cui ritiene (folio 15 della sentenza impugnata) “non provato e neppure allegato che la signora B. avesse chiesto di essere sottoposto a tale esame” (l’amniocentesi), motivazione che illegittimamente capovolge il riparto degli oneri probatori tra le parti del processo:

– onere della paziente sarebbe stato, difatti, quello di provare la richiesta della diagnosi di malformazioni funzionale all’esercizio del diritto di interruzione della gravidanza in caso di esito positivo;

– onere del medico, di converso, risultava quello di provvedere ad una completa informazione circa le possibilità (tutte le possibilità) di indagini diagnostiche, più o meno invasive, più o meno rischiose, e circa le percentuali di falsa negatività offerte dal test prescelto (test in ipotesi da suggerire, ma non certo da eseguire sic et simpliciter, in guisa di scelta sostitutiva e di assunzione del rischio parimenti sostitutivo), onde consentire alla gestante una decisione il più aderente possibile alla realtà della sua gestazione.

Ne consegue una responsabilità del medico predicabile non soltanto per la circostanza dell’omessa diagnosi in sé considerata (ciò che caratterizzerebbe il risarcimento per un inammissibile profilo sanzionatorio/punitivo, in patente contrasto con la funzione propria della responsabilità civile), ma per la violazione del diritto di autodeterminazione della donna nella prospettiva dell’insorgere, sul piano della causalità ipotetica, di una malattia fisica o psichica.

Deve pertanto ritenersi configurabile, nella specie, l’inadempimento alla richiesta di diagnosi sì come funzionale all’interruzione di gravidanza in caso di positivo accertamento di malformazioni fetali (in senso non dissimile, sia pur con riferimento a diversa fattispecie, di recente, Cass. 15386/2011), alla luce dell’ulteriore considerazione costituita dalla (incontestata) circostanza dell’altissimo margine di errore che il test selezionato dal ginecologo offriva nella specie (margine pari al 40% dei cd. “falsi negativi”), onde il suo carattere, più che di vero e proprio esame diagnostico, di screening del tutto generico quanto alle probabilità di malformazione fetale.

4.- Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. con riferimento alla presunzione di volontà di esercizio del diritto di interruzione di gravidanza da parte di donna risultata portatrice di patologia permanente dopo il parto della scoperta malformazione fetale.

Il motivo è fondato.

Non risulta conforme a diritto, difatti, la motivazione della corte lagunare nella parte in cui (folio 16 della sentenza impugnata) si opina “non esservi prova alcuna che, anche se a conoscenza della malformazione cromosomica del feto, la signora B. avrebbe potuto interrompere la gravidanza”. E ciò perché, prosegue il giudice lagunare, “non vi è alcun elemento dal quale desumere – ovviamente con giudizio ex ante – che la prosecuzione della gravidanza avrebbe esposto la signora a grave pericolo di vita o grave pericolo per la sua salute fisica o psichica”.

A prescindere dalla considerazione per la quale tale affermazione si pone in contrasto con un principio già affermato in passato, anche di recente (sia pur con le precisazioni operate da Cass. 22837/10, come rileva al folio 23 del controricorso la resistente Generali), da questa corte regolatrice – per tutte, Cass. 6735/02, Pres. Carbone, Rel. Vittoria (risulta erronea la citazione, contenuta al folio 21 del ricorso, della pronuncia 6365/2004, avente diverso oggetto) a mente dei quali in tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, l’inadempimento del medico rileva in quanto impedisce alla donna di compiere la scelta di interrompere la gravidanza. Infatti la legge, in presenza di determinati presupposti, consente alla donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al proprio stato di salute e rende corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto, principi la cui portata verrà esaminata ed approfondita dal collegio nel corso dell’esame del quinto motivo di ricorso, è qui sufficiente osservare come, nel caso di specie, a fronte di una precisa istanza diagnostica della signora B. espressamente funzionale ad una eventuale interruzione della gravidanza, appare di converso ricorrere l’opposta presunzione – ovviamente predicabile ex ante sul piano della causalità ipotetica ex lege 194/78 – di una patologia materna destinata ad insorgere a seguito della scoperta della paventata malformazione fetale (patologia poi puntualmente insorta sotto forma di danno biologico psichico, come accertato in sede di consulenza medico-legale, ad indiretta conferma – sia pur ex post e sia pur con carattere non dirimente ai fini del giudizio prognostico – della esattezza della presunzione de qua).

5.- Con il quarto motivo, si denuncia:

a) violazione e falsa applicazione dei limiti soggettivi di legittimazione attiva all’azione di risarcimento danni ex art. 1218 e 2043 c.c. conseguenti all’inadempimento di obbligazione assistenziale verso una gestante.

b) Violazione dell’art. 1 c.c. e della legge 194/78 che attribuiscono la titolarità di diritti al feto solo al momento della nascita. Revisione critica della giurisprudenza in materia anche alla luce degli orientamenti espressi dalla Corte Suprema con la sentenza n. 10741/09.

c) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c. e dell’art. 112 c.p.c. con riferimento alla mancata pronuncia in ordine alla legittimazione attiva degli attori diversi dalla signora B. e di M. O.

La doglianza deve essere accolta.

Rinviando all’esame del quinto motivo la questione della cd. “legittimazione attiva” di M. O., va in questa sede affermato il principio di diritto secondo il quale la responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti della madre nella qualità di parte contrattuale (ovvero di un rapporto da contatto sociale qualificato), anche al padre (come già affermato da Cass. n. 14488/04 e prima ancora da Cass. 6735/02), nonché, a giudizio del collegio, alla stregua dello stesso principio di diritto posto a presidio del riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo in capo al padre stesso, ai fratelli e alle sorelle del neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta.

L’indagine sulla platea dei soggetti aventi diritto al risarcimento, difatti, già da tempo operata dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento al padre (di recente, ancora, da Cass. n. 2354/10), non può non essere estesa, per le stesse motivazioni predicative della legittimazione dell’altro genitore, anche ai fratelli e alle sorelle del neonato, dei quali non può non presumersi l’attitudine a subire un serio danno non patrimoniale, anche a prescindere dagli eventuali risvolti e delle inevitabili esigenze assistenziali destinate ad insorgere, secondo l’id quod plerumque accidit, alla morte dei genitori. Danno intanto consistente, tra l’altro (come meglio si avrà modo di specificare di qui a breve, esaminando la posizione di M. O.) nella inevitabile, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione; le quali appaiono invece non sempre compatibili con lo stato d’animo che ne informerà il quotidiano per la condizione del figlio meno fortunato; consci – entrambi i genitori – che il vivere una vita malformata è di per sé una condizione esistenziale di potenziale sofferenza, pur senza che questo incida affatto sull’orizzonte di incondizionata accoglienza dovuta ad ogni essere umano che si affaccia alla vita qual che sia la concreta situazione in cui si trova – principio cardine non di una sola, specifica morale, ma di una stessa ed universale Etica (e bioetica) della persona, caratterizzata dalla insostituibile centralità della coscienza individuale.

6.- Con il quinto motivo, si denuncia violazione degli artt. 1218, 2043, 1223, 2056 c.c. con riferimento:

· Alla dannosità dell’handicap congenito per il bambino nato

· Al diritto del medesimo al risarcimento

· Al rilievo causale dell’inadempimento dell’obbligo di diagnosi precoce nei confronti della madre.

Il motivo è fondato.

Viene posto al collegio il delicato problema della titolarità di un diritto al risarcimento del danno in capo al minore handicappato, nato – a seguito della omessa rilevazione, da parte del sanitario, della malformazione genetica – da una madre che, contestualmente alla richiesta dell’esame diagnostico, abbia manifestato la volontà di non portare a termine la gravidanza nell’ipotesi di risultato positivo del test.

La questione chiama l’interprete, fin dai tempi del diritto romano classico, ad una complessa indagine sulla natura giuridica (e sulle sorti) dei diritti riconosciuti a colui qui in utero est (Dig., 1.5.7.).

Essa oscilla, nella sua più intima sostanza, tra semplicistiche trasposizioni della abusata fictio romanistica che rimanda al conceptus come soggetto pro iam nato (habetur) quotiens de eius commodis agatur (aforisma storicamente confinato, peraltro, nell’orbita dell’acquisto di diritti patrimoniali condizionati all’evento nascita), e contrastate adesioni alla sua rappresentazione sicut mulier portio vel viscerum (espressiva della teoria cd. pro choice, cara a tanta parte della giurisprudenza nordamericana in termini di diritto soggettivo assoluto della donna a decidere della sorte del concepimento e del concepito).

La questione induce, in limine, ad indagare sulla qualità da attribuire al concepito nella sua dimensione rigorosamente giuridica, attraverso un’analisi scevra da facili quanto inevitabili suggestioni di tipo etico o filosofico, onde predicarne la natura di soggetto di diritto ovvero, del tutto specularmente, di oggetto di tutela sino al momento della sua nascita.

Non è questa la sede per ripercorrere funditus, in via interpretativa, le tappe di un complesso itinerario di pensiero segnato da norme ordinarie e costituzionali non meno che da (reali o presunte) “clausole generali” – quali quella della centralità della persona -, itinerario funzionale a scelte di teoria generale dell’ermeneutica tra giurisprudenza dei concetti e giurisprudenza degli interessi di cui è compiuta e approfondita traccia (sia pur non del tutto condivisibile tanto nelle premesse metodologiche quanto nelle conseguenti conclusioni) nella sentenza di questa stessa sezione n. 10741/09.

Ma da tale itinerario il collegio non può, d’altro canto, del tutto prescindere, proprio al fine di condurre a non insoddisfacente soluzione giuridica la questione di cui in premessa, ripercorrendone, sia pur brevemente, le tappe essenziali, attesi gli espliciti riferimenti operati dalle parti dell’attuale procedimento proprio alla sentenza n. 10741/09.

L’analisi delle affermazioni contenute in quella pronuncia deve, peraltro, essere preceduta dall’esame dei principi di diritto contenuti nella sentenza n. 14488/2004 di questa sezione, predicativa, come è noto:

– della irrisarcibilità del danno da nascita malformata lamentato in proprio dal neonato;

– della speculare limitazione di tale diritto a due soli soggetti, rappresentati dalla madre e dal padre del bambino malformato.

6.1.-. Nella vicenda di cui questa Corte ebbe ad occuparsi nel 2004, genitori affetti da talassemia non vennero informati dal medico, durante la gravidanza, del rischio che anche la nascitura potesse risultarne contagiata, e perciò convennero in giudizio il professionista chiedendone la condanna al risarcimento del danno patito sia da loro che dalla figlia nata talassemica.

Il giudice di merito riconobbe e liquidò il risarcimento dei danni subiti da entrambi i genitori per l’omissione del medico, che aveva così precluso un’eventuale interruzione della gravidanza, negando peraltro il medesimo diritto alla neonata, la cui malattia venne ritenuta non evitabile né rimediabile.

La corte di legittimità, sollecitata alla rivisitazione di tale dictum, confermerà nell’an quella pronuncia, argomentando diffusamente su questioni la cui delicatezza trascende non poco il compito dell’interprete, inducendolo a riflettere (come è stato suggestivamente osservato in dottrina) sul “miserabile ruolo del diritto” che, nel riconsiderare tanto gli spazi concessi alla giurisprudenza quanto quelli di esclusiva pertinenza del legislatore, affronta in questi ultimi anni, con i soli strumenti suoi propri e perciò solo del tutto inadeguati, l’inedita dimensione della responsabilità sanitaria del ventunesimo secolo nei suoi aspetti più problematici, quando cioè essa oscilla tra la vita (non voluta) e la morte (voluta, per espressa dichiarazione o per silenziosa presunzione).

L’iter motivazionale della Cass. n. 14488/04 è scandito dai seguenti passaggi argomentativi:

a) nel bilanciamento tra il valore (e la tutela) della salute della donna e il valore (e la tutela) del concepito, l’ordinamento consente alla madre di autodeterminarsi, ricorrendone le condizioni richieste ex lege, a richiedere l’interruzione della gravidanza. La sola esistenza di malformazioni del feto che non incidano sulla salute o sulla vita della donna non permettono alla gestante di praticare l’aborto: il nostro ordinamento non ammette, dunque, l’aborto eugenetico e non riconosce né alla gestante né al nascituro, una volta nato, il diritto al risarcimento dei danni per il mancato esercizio di tale diritto (della madre);

b) la legge n. 194 del 1978 consente invece alla gestante d’interrompere la gravidanza solo quando dalla prosecuzione della gestazione possa derivare, anche in previsione di anomalie o malformazioni del concepito, un reale pericolo per la sua salute fisica o psichica, ovvero per la sua vita;

c) prevale, in seno agli ordinamenti stranieri, la tendenza a rigettare la domanda proposta in proprio dal nato malformato e ad accogliere quella dei genitori relativamente ai danni patrimoniali e non patrimoniali; peraltro, la Corte di Cassazione francese in assemblea plenaria, nel celebre arrét Perruche del 27.11.2001, operando un revirement rispetto alla precedente giurisprudenza, affermò che, “quando gli errori commessi da un medico e dal laboratorio in esecuzione del contratto concluso con una donna incinta impedirono a quest’ultima di esercitare la propria scelta di interruzione della gravidanza, al fine di evitare la nascita di un bambino handicappato, questi può domandare il risarcimento del danno consistente nel proprio handicap, causato dai predetti errori“. A tale pronuncia fece immediato seguito l’intervento del legislatore (loi Kouchner 303/2002), che escluse qualsivoglia pretesa risarcitoria dell’handicappato per il solo fatto della nascita “quando l’handicap non è stato provocato, aggravato o evitato da errore medico”;

d) la tutela giuridica del nascituro, pure prevista dal nostro ordinamento, è peraltro regolata in funzione del diritto del concepito a nascere (sano), mentre un eventuale diritto a non nascere sarebbe un diritto adespota in quanto, a norma dell’art. 1 c.c., la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, ed i diritti che la legge riconosce a favore del concepito (artt. 462, 687, 715 c.c.) sono subordinati all’evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita. Nella fattispecie, invece, il diritto di non nascere, fino alla nascita, non avrebbe un soggetto titolare dello stesso, mentre con la nascita sarebbe definitivamente scomparso;

e) sotto altro profilo, ma nella stessa ottica, ipotizzare il diritto del concepito malformato di non nascere significa concepire un diritto che, solo se viene violato, ha, per quanto in via postuma, un titolare, ma se tale violazione non vi è (e quindi non si fa nascere il malformato per rispettare il suo diritto di non nascere), non vi è mai un titolare. Il titolare di questo presunto diritto non avrà mai la possibilità di esercitarlo (non esisterebbe un soggetto legittimato a farlo valere): non può farlo valere, ovviamente, il concepito, ancora non nato; non potrebbe farlo valere, altrettanto ovviamente, il medico; non potrebbe essere esercitato neppure dalla gestante. Il suo diritto all’aborto non ha, infatti, una propria autonomia, per quanto relazionata all’esistenza o meno delle malformazioni fetali, come invece nella legislazione francese, ma si pone in una fattispecie di tutela del diritto alla salute: il diritto che ha la donna è solo quello di evitare un danno serio o grave, a seconda delle ipotesi temporali, alla sua salute o alla sua vita. Per esercitare detto diritto, nel bilanciamento degli interessi, l’ordinamento riconosce la possibilità alla donna di interrompere la gravidanza, ed è la necessità della tutela della salute della madre che legittima la stessa alla (richiesta di) soppressione del feto scriminandola da responsabilità (se l’interruzione della gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6 l. n. 194/1978, accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8, costituisce reato anche per la stessa gestante ex art. 19 stessa legge);

f) il nostro ordinamento positivo tutela il concepito – e quindi l’evoluzione della gravidanza – esclusivamente verso la nascita e non verso la non nascita, per cui, se di diritto vuol parlarsi, deve parlarsi di diritto a nascere. Già la Corte Costituzionale, con la sent. 18.2.1975, n. 27, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 546 c.p. nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando la sua prosecuzione implicava danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della madre, aveva precisato che anche la tutela del concepito ha “fondamento costituzionale” nell’art. 31 comma 2° della Costituzione, che “impone espressamente la protezione della maternità” e, più in generale, nell’art. 2, che “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito”. La successiva legge 22.5.1978, n. 194, significativamente intitolata “norme per la tutela sociale della maternità” oltre che “sull’interruzione volontaria della gravidanza”, proclama all’art. 1 che “lo Stato …. riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”; inizio che, come si evince dal combinato disposto con gli articoli successivi, va riferito al momento del concepimento (e non tanto, o non solo allo scadere del novantesimo giorno dal concepimento, cui fa riferimento il successivo art. 4);

g) va poi osservato che, se esistesse detto diritto a non nascere se non sano, se ne dovrebbe ritenere l’esistenza indipendentemente dal pericolo per la salute della madre derivante dalle malformazioni fetali, e si porrebbe l’ulteriore problema, in assenza di normativa in tal senso, di quale sarebbe il livello di handicap per legittimare l’esercizio di quel diritto, e, poi, di chi dovrebbe ritenere che detto livello è legittimante della non nascita. Infatti, anche se non vi fosse pericolo per la salute della gestante, ogni qual volta vi fosse la previsione di malformazioni o anomalie del feto, la gestante, per non ledere questo presunto diritto di “non nascere se non sani”, avrebbe l’obbligo di richiedere l’aborto, altrimenti si esporrebbe ad una responsabilità (almeno patrimoniale) nei confronti del nascituro una volta nato. Quella che è una legge per la tutela sociale della maternità e che attribuisce alla gestante un diritto personalissimo, in presenza di determinate circostanze, finirebbe per imporre alla stessa l’obbligo dell’aborto (salvo l’alternativa di esporsi ad un’azione per responsabilità da parte del nascituro).

Nei primi commenti alla sentenza, la dottrina non mancò di osservare come il riconoscimento di un diritto al risarcimento accordato anche al padre – terzo rispetto al contratto intercorso tra il medico e la gestante, e privo di qualsivoglia os ad eloquendum nella sua decisione d’interrompere la gravidanza -, con riferimento agli “effetti protettivi” del contratto verso i terzi comunque esposti ai pregiudizi conseguenti all’inadempimento del sanitario, indebolisse la soluzione del diniego dell’analoga pretesa fatta valere dai genitori a nome della figlia nata, che a più forte ragione doveva ritenersi ricompresa nella cerchia dei suddetti terzi danneggiati. Lo stesso riferimento alla non-imputabilità dell’evento (per via dell’inevitabilità della malformazione) all’omissione del medico venne sotto vari aspetti sottoposta a critica, volta che tale riferimento non appariva poi idoneo ad escludere non solo l’affermata responsabilità del medico verso la madre (in quanto) privata della possibilità di autodeterminarsi nella prosecuzione della gravidanza, ma anche quella nei confronti del padre, sebbene non legittimato in alcun modo ad interloquire sull’interruzione della gestazione (e ciò nondimeno, “egualmente protetto dal contratto originario”).

Per altro verso, l’argomento cardine utilizzato per negare il risarcimento richiesto (anche) dalla figlia – costituito dalla conclamata inesistenza nel nostro ordinamento di un diritto a non nascere se non sano, in quanto “posizione non meritevole di tutela” – venne definito “affermazione meramente retorica – e quindi elusiva del grave problema posto a quel tempo al collegio, da riassumersi nel quesito se una persona nata con una malformazione che ne segna la vita e di cui sicuramente non è responsabile abbia o meno diritto a chiederne conto a qualcuno, considerato che il nostro ordinamento, per un verso, favorisce, sì, la procreazione, ma in quanto “cosciente e responsabile”, ex art. 1 l. n. 194/1978, mentre, d’altro verso, tutela (come ribadisce la stessa sentenza) il diritto del concepito a nascere sano. Né la mancata previsione legale di un diritto a non nascere venne ritenuto argomento spendibile (“come avrebbe mai potuto l’ordinamento prevedere un simile diritto?”): se, come è ovvio, ogni tutela giuridica deve essere, per necessità logica, riferita ad un soggetto esistente, l’unica alternativa in ordine all’ammissibilità di una siffatta tutela non era tra non nascere o nascere malato, bensì tra nascere sano o nascere malato.

Sotto altro profilo, perplessità vennero sollevate perché, nel discorrere di una pretesa assenza dell’interesse protetto, la sentenza postulava una valutazione di “non ingiustizia” del danno estranea all’ambito della responsabilità contrattuale, (lasciando così il fanciullo handicappato senza alcuna tutela nei casi di abbandono, di cattiva amministrazione o di premorienza dei genitori). Si osservò, significativamente, come la questione non consistesse nell’affermare o nel negare pretesi diritti di nascere (o di non nascere, o di non “nascere handicappato”) o di morire (o di non morire), né di valutare quanto valga il “non-essere” rispetto all'”essere” (handicappato), posto che il vivere una vita malformata è di per se una situazione esistenziale negativa, onde il danno ingiusto risarcibile – provocato da un’azione comunque colpevole altrui – consisterebbe nell’obiettività del vivere male indipendentemente dalle alternative a disposizione, espungendo dalla sfera del rilevante giuridico una concezione del danno come paragone con la vita sana perché questa vita sana non ci sarebbe stata: a seguito della nascita, si è sostenuto, “la questione non è più quella della sua venuta al mondo, ma soltanto quella del suo handicap”.

Poco convincenti apparvero, infine, le ulteriori obiezioni che paventavano un potenziale quanto “innaturale” diritto risarcitorio del minore esercitabile nei confronti della madre – che, correttamente informata dal medico sui rischi della nascita, avesse liberamente deciso di generare un figlio invalido – ovvero del padre contro la madre: danni in realtà irrisarcibili per l’assenza di una condotta colposa, se il fatto di dare la vita, o la rinuncia, da parte della madre, a interrompere la gravidanza, non possono mai essere considerati in termini di colpa né di ingiustizia del danno. L’atto della procreazione è frutto di una scelta che spetta, giuridicamente, soltanto ai genitori; ma la donna è, inevitabilmente, il solo legittimo destinatario del diritto a decidere se procedere o no all’interruzione della gravidanza.

Ancor meno convincenti apparvero, agli occhi della più attenta dottrina, le osservazioni contenute in sentenza circa la disciplina dell’interruzione della gravidanza allo scopo di individuare “il bene giuridico protetto dalle norme che sanzionano l’aborto”, considerato che annettere il risarcimento del danno prenatale nei confronti del fanciullo nato handicappato al territorio della responsabilità contrattuale indurrebbe ad opinare che “il bébé préjudice sia risarcibile nei riguardi del neonato quale conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (o dell’inesatto adempimento) dell’obbligazione d’informazione, senza che assuma rilievo la valutazione della condotta in termini di ingiustizia del danno”. Onde il voler rifiutare di ammettere che un handicap sia, per l’handicappato medesimo, un “danno” venne definito “un puro e semplice sofisma”, se è non la “vita” dell’handicappato che si tratta di assimilare a un danno, ma proprio il suo handicap.

Altro limite rilevato dalla dottrina con riguardo alla motivazione della sentenza ebbe riguardo a quella che venne (del tutto condivisibilmente) ritenuta da più parti la questione giuridica essenziale, quella, cioè, del rapporto di causalità. La sentenza, difatti, non affrontò specificamente il problema del nesso eziologico (diversamente da quanto accaduto in Francia, dove sia la giurisprudenza del Consiglio di Stato e delle Corti d’appello, sia gli autori che contestarono la decisione della Cassazione sul caso Perruche motivarono la soluzione negativa sull’assenza del legame eziologico tra l’inadempimento e il danno), mentre la questione del nesso di causalità per il danno patito dal fanciullo handicappato – si disse -, lungi dal poter derivare da una analisi conseguente alla cd. biologisation du droit , andava riguardata sotto un profilo rigorosamente giuridico, così come accade ad esempio in caso di contagio da trasfusione, ove la causa “biologica” della malattia è certamente il virus HIV o HCV, ma nessuno dubita che la responsabilità vada imputata, sulla base di un criterio di causalità giuridicamente rilevante, a quel soggetto (pubblico o privato) che, con la sua colpevole omissione, abbia provocato, reso possibile o non impedito il contagio.

6.2.- Con la sentenza n. 10741/2009, questa Corte di legittimità, nuovamente investita della questione della risarcibilità in proprio del nascituro, sia pur sotto il diverso profilo della rilevanza – in guisa di conseguente danno ingiusto – di una attività commissiva (oltre che omissiva) del sanitario, dopo aver premesso che il nascituro o il concepito devono ritenersi dotato di autonoma soggettività giuridica (specifica, speciale, attenuata, provvisoria o parziale che si voglia), perché titolari, sul piano sostanziale, di alcuni interessi personali in via diretta, quali il diritto alla vita, e quelli alla salute o integrità psico-fisica, all’onore o alla reputazione, all’identità personale, affermò il principio di diritto secondo il quale, stante la soggettività giuridica del concepito, al suo diritto a nascere sano corrisponde l’obbligo dei sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento condizionato, quanto alla titolarità, all’evento nascita ex art. 1, comma 2, c.c., ed azionabile dagli esercenti la potestà) per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in ordine ai possibili rischi teratogeni conseguenti alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sia del dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso.

Il collegio ebbe poi cura di precisare, sia pur in guisa di mero obiter dictum, che quest’ultimo non avrebbe avuto diritto al risarcimento qualora il consenso informato circa il rischio di malformazioni prenatali fosse stato funzionale soltanto alla interruzione di gravidanza da parte della donna, dando così ulteriore continuità al principio di diritto espresso dalla sentenza n. 14488/2004.

L’iter motivazionale della sentenza del 2009 – all’esito di una lunga e approfondita riflessione che, premesse alcune considerazioni di teoria generale del diritto, specie in tema di fonti e di interpretazione, giunge alla conclusione della attuale configurabilità, in seno all’ordinamento, di una posizione di autonoma soggettività in capo al nascituro – si caratterizza per i seguenti passaggi argomentativi:

a) il mancato esercizio di una doverosa informazione a ciascuno dei coniugi circa la potenzialità dannosa di un farmaco somministrato alla futura madre per stimolarne la funzione riproduttiva aveva precluso loro di scegliere, con avvertita coscienza dei rischi, di farne uso o meno, con conseguente responsabilità del medico nei confronti di entrambi, in quanto destinatari delle informazioni colpevolmente omesse;

b) l’esistenza di un danno ingiusto risarcibile era, nella specie, predicabile anche con riguardo alla posizione del neonato portatore di handicap e perciò vittima, dopo il suo concepimento (secondo le accertate risultanze in fatto della vicenda) degli effetti nocivi del farmaco prescritto, attesa la molteplicità e concordanza degli indici normativi volti a riconoscere la soggettività giuridica del nascituro, titolare, come tale, del diritto (tra gli altri) alla salute, azionabile a fini risarcitori a seguito della effettiva nascita;

c) il diritto al risarcimento così riconosciuto al figlio nato in conseguenza di una terapia nociva non contraddice la esclusione di ogni tutela risarcitoria nel diverso caso della mancata informazione (sui rischi di malformazione del feto) incidente sulla decisione della madre di interrompere, in tal caso, la gravidanza, attesa la già affermata inconfigurabilità nel nostro ordinamento, di un diritto a non nascere se non sano.

La grande novità della sentenza, rispetto al precedente costituto dalla pronuncia n. 6735 del 2002 (che ammise al risarcimento anche il padre del bambino nato malformato), consiste nel riconoscimento che gli effetti protettivi del rapporto obbligatorio (contrattuale o da cd. “contatto sociale”) instaurato tra la paziente e i sanitari che la assistono durante la gestazione si producono non solo a favore del marito, bensì anche del figlio. Per la prima volta questo giudice di legittimità si è spinto, sia pur sotto un diverso profilo rispetto a quello che oggi occupa il collegio, a valutare l’incidenza della nascita di un bambino in condizioni menomate sul piano dell’esistenza dell’intera famiglia, e non più solo della coppia, riconoscendo un autonomo diritto al risarcimento anche al protagonista principale di una vicenda di danno prenatale.

6.2.- La soluzione della questione di diritto affrontata nella sentenza n. 10741/09, al pari di quella oggi sottoposta all’esame del collegio, non sembra, peraltro, postulare né imporre come imprescindibile l’affermazione della soggettività del nascituro, soluzione che sconta, in limine, un primo ostacolo di ordine logico costituito dalla apparente contraddizione tra un diritto “a nascere sano” (un diritto, dunque, alla vita, che si perpetuerebbe nel corso della gestazione) e la sua repentina quanto inopinata trasformazione in un diritto alla salute di cui si invocherebbe tutela solo dopo la nascita.

In premessa, l’accurata analisi, gli approfonditi riferimenti e gli spunti critici riservati in sentenza alla giurisprudenza cd. normativa, nell’ottica di una rinnovata funzione “creativa” della speculare Interessenjurisprudenz, ne lascia poi impregiudicato l’interrogativo circa la collocazione di quest’ultima nell’ambito della gerarchia delle fonti – salvo a voler riservare alle sole fonti “poste” tale preordinazione gerarchica, onde la giurisprudenza normativa sarebbe singolarmente fuori da quell’assetto. Se quest’ultimo appare a prima vista l’approdo più agevole sul piano dogmatico, per altro verso non sembra seriamente discutibile che, così opinando, il giudice civile, laddove ritenga nell’interpretare la legge alla luce dei valori costituzionali che essa non tuteli (o non tuteli a sufficienza) una situazione giuridica di converso meritevole, interviene a creare una corrispondente “forma” giuridica di tutela, eventualmente in contrasto con la legge stessa, ma senza subire alcun sindacato di costituzionalità, in quanto il sistema non prevede un meccanismo immediato di sindacato della costituzionalità degli orientamenti pretori salvo che questi riguardino la stretta interpretazione di una o più norme di legge esistenti (e sempre che un giudice sollevi la questione di costituzionalità secondo il consueto procedimento di cognizione incidentale).

Il problema – che non può essere approfondito in questa sede se non nei limiti in cui la risoluzione del caso concreto lo impone e che attinge all’equilibrio stesso tra i poteri dello Stato, oltre che al modo di essere, e dunque di evolversi, dell’ordinamento giuridico – induce l’interprete ad interrogarsi sui limiti del suo intervento in seno al tessuto normativo e al di là di esso, senza mai omettere di considerare che, di interpretazione contra legem (non diversamente che per la consuetudine), non è mai lecito discorrere in un sistema (pur semi-aperto) di civil law, che ammette e legittima, esaurendone in sé la portata innovativa, l’interpretazione estensiva e l’integrazione analogica, anch’essa condotta pur sempre ex lege ovvero ex iure.

Non altro. Non oltre.

Merito della sentenza è senz’altro quello di aver distinto tra due situazioni apparentemente simili, ma in realtà, sul piano giuridico, tra loro assai diverse. Al contrario di quanto avviene nel caso di prescrizione di farmaci teratogeni, la errata o mancata diagnosi non rileva ex se, sul piano eziologico, con riguardo alla genesi della patologia sofferta dal bambino, vicenda per la quale i genitori possono conseguentemente lamentare, nei confronti dei sanitari, la sola omissione di informazione circa lo stato di salute del feto per avere tale difetto di informazione di fatto impedito alla madre di potersi determinare ad un aborto terapeutico nei termini e alle condizioni previste dalla legge.

Meno condivisibile appare, per le ragioni che in seguito meglio si approfondiranno, il principio, ribadito in obiter, della irrisarcibilità del danno direttamente subito dal neonato, che ad avviso del collegio perpetua lo stesso equicovo concettuale immanente alla sentenza n. 14488/2004: quello secondo cui il nato non ha comunque diritto ad alcun risarcimento del danno per essere venuto alla vita, in quanto privo della titolarità di un interesse a non nascere.

La contraddizione in materia di diritti del concepito sta proprio, da un lato, nel considerarlo (a torto o a ragione), in fase prenatale, soggetto di diritto e perciò centro di imputazione di alcuni diritti, della personalità e patrimoniali – da far valere solo se ed in quanto nato -; dall’altro, nel riservargli, alla nascita un trattamento di non-persona, disconoscendone sostanzialmente gli aspetti più intimi e delicati della sua esistenza.

La concezione della vita come oggetto di tutela, da parte dell’ordinamento, in termini di “sommo bene”, di alterità normativa superiorem non recognoscens – di talché non potrebbe in alcun modo configurarsi un interesse a non nascere giuridicamente tutelato (al pari di un interesse a non vivere una non-vita, come invece condivisibilmente riconosciuto da questa stessa corte con la sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) – è percorsa da forti aneliti giusnaturalistici, ma è destinata a cedere il passo al raffronto con il diritto positivo.

Decisiva appare, difatti, la considerazione secondo cui, al momento stesso in cui l’ordinamento giuridico riconosce alla madre il diritto di abortire, sia pur nei limiti e nei casi previsti dalla legge, si palesa come incontestabile e irredimibile il sacrificio del “diritto” del feto a venire alla luce, in funzione della tutela non soltanto del diritto alla procreazione cosciente e responsabile (art. 1 della legge n. 194 del 1978), ma dello stesso diritto alla salute fisica o anche soltanto psichica della madre. Mentre non vi sarebbe alcuno spatium comparationis se, a confrontarsi, fossero davvero, in una comprovata dimensione di alterità soggettiva, un (superiore) diritto alla vita e un (“semplice”) diritto alla salute mentale.

E’ questo l’insegnamento, oltre che del giudice delle leggi, della stessa Corte internazionale di Strasburgo che, con (ancora inedita) sentenza dell’agosto di quest’anno, ha dichiarato la sostanziale incompatibilità di buona parte della legge 40/2004 in tema di fecondazione assistita (che, comunque, consentiva anche nell’originaria formulazione il sacrificio di due dei tre embrioni fecondati in vitro), per (illogicità e) contraddittorietà, proprio con la legge italiana sull’interruzione della gravidanza, così mettendo in discussione ab imo la stessa ratio ispiratrice di quella normativa, già considerevolmente vulnerata in non poche disposizioni dalla Corte costituzionale nel 2009.

Troppo spesso si dimentica che una norma statuale di rango primario, più volte legittimata dal vaglio della Corte costituzionale, riconosce alla madre il diritto ad interrompere la gravidanza quando questa si trovi “in circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanzail parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito” (così testualmente l’art. 4 della legge n. 194 del 1978).

Appare di indiscutibile efficacia la scelta lessicale di un legislatore che descrive la situazione giuridica soggettiva attribuita alla gestante in termini di diritto alla procreazione cosciente e responsabile, a lei rimesso in termini di assoluta quanto inevitabile esclusività.

Il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è, dunque, attribuito alla sola madre, per espressa volontà legislativa, sì che risulta legittimo discorrere, in caso di sua ingiusta lesione, non di un diritto esteso anche al nascituro in nome di una sua declamata soggettività giuridica, bensì di propagazione intersoggettiva degli effetti diacronici dell’illecito (come incontestabilmente ammesso nei confronti del padre) – salvo l’indispensabile approfondimento (che di qui a breve seguirà) sul tema della causalità in relazione all’evento di danno in concreto lamentato dal minore nato malformato.

Altra e diversa questione è quella se la facoltà riconosciuta ex lege alla madre di interrompere volontariamente la gravidanza – consentendole di porre fine, con la propria manifestazione di volontà, allo sviluppo del feto – possa ritenersi rappresentativa di un esclusivo interesse della donna, e non piuttosto anche del nascituro. Questione, peraltro, di stampo etico, filosofico, religioso, che pone all’interprete interrogativi destinati a scorrere su di un piano metagiuridico di coscienza, ma non impone la ricerca di risposte né tampoco di soluzioni sul piano del diritto positivo, postulando che l’interesse alla procreazione cosciente e responsabile non sia solo della madre, ma altresì del futuro bambino, e ciò anche quando questo si trovi ancora nel ventre materno. La titolarità del relativo diritto soggettivo, riconosciuto espressamente dall’art. 1 della legge n. 194 del 1978, non può che spettare, si ripete, alla sola madre, in quanto solo alla donna è concessa (dalla natura prima ancora che dal diritto) la legittimazione attiva all’esercizio del diritto di procreare coscientemente e responsabilmente valutando le circostanze e decidendo, alfine, della prosecuzione o meno di una gravidanza che vede la stessa donna co-protagonista del suo inizio, ma sola ed assoluta responsabile della sua prosecuzione e del suo compimento.

Il rigoroso meccanismo legislativo, in consonanza con quello di natura, esclude tout court la possibilità che il bambino, una volta nato, si dolga nei confronti della madre, come pure si è talvolta ipotizzato seguendo gli itinerari del ragionamento per assurdo, della scelta di portare avanti la gravidanza accampando conseguentemente pretese risarcitorie. E’ la madre, infatti, che, esercitando un diritto iure proprio (anche se, talvolta, nell’interesse non soltanto proprio, pur essendo tale interesse confinato nella sfera dell’irrilevante giuridico), deciderà presuntivamente per il meglio: né potrebbe darsi ipotesi contraria, a conferma della mancanza di una reale soggettività giuridica in capo al nascituro.

A tanto consegue la non condivisibilità, sul piano strettamente giuridico, della ricostruzione delle singole situazioni soggettive (della madre, del padre, dei componenti il nucleo familiare, del neonato stesso) che postulino in premessa l’esistenza, in capo al nascituro, di un diritto a nascere sano, contrapposto idealmente ad un non diritto “a non nascere se non sano”. Altra questione, del tutto fuori dall’orbita del diritto, è quella che vede tuttora discutersi a vario titolo sulla scelta legislativa di consentire alla madre di scegliere se proseguire o meno la gravidanza in presenza di determinate condizioni. Compiuta una simile opzione normativa da parte del legislatore ordinario, e ricevuta ripetuta e tranquillante conferma della sua conformità al dettato costituzionale da parte del giudice delle leggi, l’interprete è chiamato non ad un compito “creativo” di pretese soggettività limitate, ma all’accertamento positivo di un diritto, quello della madre, e di un interesse, quello del nascituro (una volta in vita), oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, alla procreazione cosciente e responsabile.

Sarà poi destinata alle considerazioni che di qui a breve seguiranno l’analisi della questione centrale della causalità, la questione, cioè, se ledere un siffatto interesse abbia come conseguenza diretta ed immediata quella di porre il nascituro malformato in condizioni di diseguaglianza rispetto agli altri nascituri, e se tale condotta lesiva sia o meno concausa del suo diritto al risarcimento, da valutare anche sotto il profilo del suo inserimento in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo.

Sgombrato il campo dall’equivoco che si annida nella poco felice locuzione “diritto a non nascere se non sano”, e ricondotta la vicenda alla sua più corretta dimensione giuridica, il principio di diritto che appare predicabile è quello secondo il quale la propagazione intersoggettiva dell’illecito legittima un soggetto di diritto, quale il neonato, per il tramite del suo legale rappresentante, ad agire il giudizio per il risarcimento di un danno che si assume in ipotesi ingiusto (tuttora impregiudicata la questione del nesso causale e dell’ingiustizia del danno lamentato come risarcibile in via autonoma dal neonato).

Ritiene, pertanto, il collegio che la protezione del nascituro non passi necessariamente attraverso la sua istituzione a soggetto di diritto – ovvero attraverso la negazione di diritti del tutto immaginari, come quello a “non nascere se non sano”, locuzione che semplicemente non rappresenta un diritto; come non è certo riconducibile ad un diritto del concepito la più ferma negazione, da parte dell’ordinamento (non soltanto italiano), di qualsiasi forma di aborto eugenetico.

E’ tanto necessario quanto sufficiente, di converso, considerare il nascituro oggetto di tutela, se la qualità di soggetto di diritto (evidente astrazione rispetto all’essere vivente) è attribuzione normativa funzionale all’imputazione di situazioni giuridiche e non tecnica di tutela di entità protette. Nessuna rilevanza, in positivo o in negativo, pare assumere all’uopo il pur fondamentale principio della centralità della persona, universalmente riconosciuto e tutelato a qualsiasi livello normativo, ma inidoneo ex se a rientrare nel novero delle vere e proprie “clausole generali” (quali quelle della correttezza, della buona fede, della funzione sociale della proprietà, della giusta causa del licenziamento, della cooperazione del creditore all’adempimento del debitore, della solidarietà passiva, tutte espressamente previste, esse sì, per via normativa). La centralità della persona (al di là della significazione che si attribuisce al termine “persona”, la cui etimologia evoca peraltro l’originario significato latino di maschera del teatro) è qualcosa di più e di diverso rispetto ad una semplice clausola generale, è un “valore assoluto”, rappresentabile esso stesso come proiezione di altre norme (tra le altre, gli art. 2 e 32 della Costituzione) e come autentico fine dell’ordinamento..

Per altro verso, una corretta e coerente attuazione dei principi cardine della giurisprudenza degli interessi (a mente della quale la correttezza della decisione del giudice dipende dalla altrettanto corretta valutazione dello scopo delle norme, anche a prescindere dalla relativa struttura semantico-contenutistica, secondo una ricerca del relativo significato in una dimensione teleologica, diversamente da quanto propugnato dalla giurisprudenza dei concetti, che procede invece per progressiva astrazione da norme di sistema valutandone soltanto il corrispondente significante) sembra condurre alla conclusione che tutte le norme, costituzionali e ordinarie, volte a disciplinare il delicato territorio del concepimento considerino il concepito come un oggetto di tutela necessaria, essendo la soggettività – come s’è detto – un’astrazione normativa funzionale alla titolarità di rapporti giuridici.

Ne è conferma tanto lo storico dictum della Corte costituzionale (di cui alla sentenza del 18 febbraio 1975, n. 27, predicativa del fondamentale principio della non equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare) quanto le già ricordate disposizioni sull’interruzione di gravidanza che, se realmente postulassero un confronto tra due diverse soggettività giuridiche, e cioè fra due soggetti di diritto portatori di interessi e istanze contrapposte, non potrebbero mai operare una comparazione tra una malattia psichica e una vita privilegiando la prima, dovendosi di converso lasciar ovvio spazio alla vita in quanto valore supremo superiorem non recognoscens.

Sotto un ulteriore profilo, non appare seriamente predicabile l’attuale esistenza, in capo al concepito, dei pur rinvenuti “interessi personali quali il diritto all’onore, alla reputazione, all’identità personale”, situazioni soggettive che presuppongono una dimensione di relazioni sociali (la reputazione, l’identità personale) ovvero una consapevolezza di sé (l’onore), che, ipso facto, difettano tout court al concepito sul piano naturalistico prima ancora che su quello giuridico.

Non si intende, con ciò, mettere in discussione quanto recentemente opinato da una attenta dottrina quando osserva che, malgrado il nascituro, da un punto di vista terminologico, non sia una figura rintracciabile nella nostra Costituzione, ciò non significa che non possa essere ricondotto nell’ambito di tutela ad essa proprio. Quando la Costituzione – si afferma – riconosce l’idoneità a essere titolare di situazioni giuridiche attive e passive solo a chi è partecipe della qualità e dignità di uomo, non può che fare riferimento al carattere biologico del soggetto, dal che deriva l’innegabilità del riconoscimento in capo al nascituro dei diritti inviolabili dell’uomo previsti dall’art. 2 della Carta fondamentale, che esalta l’imprescindibile legame di tali diritti con la natura umana. Tale conclusione troverebbe “puntuale conferma” negli art. 2, 30, 31, 32 e 37 Cost., mentre le stesse espressioni che fanno riferimento alla maternità, contenute negli artt. 31, comma 2 e 37 comma 1, si saldano logicamente con la normativa per cui la maternità viene in rilievo come situazione esistenziale “plurima” da salvaguardare, in quanto la tutela giuridica si dirige sia verso la madre sia nei confronti del figlio, e si estende dalla gestante al nascituro. Dalla rassegna delle disposizioni del codice civile – si sostiene ancora – può inoltre evincersi che l’attribuzione delle situazioni giuridiche imputabili al concepito, delle quali solo quelle di natura patrimoniale sarebbero subordinate all’evento nascita, implica necessariamente la valutazione del medesimo come centro di interessi suscettibili di tutela.

La locuzione “centro di interessi suscettibile di tutela” è peraltro espressione anfibologica, dalla quale è lecito dedurre tanto la conclusione (non necessaria) della soggettività giuridica del nascituro, quanto quella, più realisticamente aderente al dato normativo ed alla stessa concezione del soggetto in termini di fattispecie (come illuminantemente opinato, oltre sessant’anni fa, da uno dei più illustri esponenti della civilistica italiana), in termini, cioè, di oggetto di tutela “progressiva” da parte dell’ordinamento, in tutte le sue espressioni normative e interpretative.

Al là di alcune recenti e poco condivisibili formulazioni lessicali (si pensi alla tecnica normativa adoperata dal legislatore della legge 40/2004 sulla procreazione assistita, la cui improprietà anche terminologica ha cagionato, come si è avuto modo di osservare in precedenza, un inevitabile intervento abrogans di buona parte della sue disposizioni, mentre ancora più recente risulta l’intervento, parimenti tranchant, della Corte di giustizia europea, che ne ha evidenziato la patente contraddittorietà), l’intero plesso normativo, ordinario e costituzionale, sembra muovere nella direzione del concepito inteso come oggetto di tutela e non anche come soggetto di diritto. Solo a seguito dell’evento nascita, difatti, la fattispecie scrutinata dalla sentenza 10741/2009 si presentò non diversamente da un ordinario caso di danno alla salute: la lesione inferta al concepito si manifesta e diviene attuale al momento della nascita, la situazione soggettiva tutelata è il diritto alla salute, non quello a nascere sano. Chi nasce malato per via di un fatto lesivo ingiusto occorsogli durante il concepimento non fa, pertanto, valere un diritto alla vita né un diritto a nascere sano né tantomeno un diritto a non nascere. Fa valere, ora per allora, la lesione della sua salute, originatasi al momento del concepimento. Oggetto della pretesa e della tutela risarcitoria è, pertanto, sul piano morfologico, la nascita malformata, su quello funzionale (quello, cioè, del dipanarsi della vita quotidiana) il perdurante e irredimibile stato di infermità. Non la nascita non sana. O la non nascita.

6.3.- I principi sinora esposti risultano già in gran parte affermati da questa corte nella sentenza n. 9700 del 2011.

La pronuncia afferma, difatti, il principio di diritto secondo il quale chi sia nato successivamente alla morte del padre può ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali verificatisi contemporaneamente alla nascita e/o posteriormente ad essa, essendo irrilevante la non contemporaneità fra la condotta dell’autore dell’illecito (che ben può realizzarsi durante la fase del concepimento) e il danno (che ben può prodursi successivamente, come già opinato da questa stessa corte, in sede penale, con la sentenza n. 11625 del 2000).

Nella specie, si dissero risarcibili i danni subiti dal minore, a partire dal momento della nascita, in conseguenza dell’uccisione del padre avvenuta in epoca anteriore alla nascita stessa, al tempo in cui il minore era soltanto concepito.

Così modificata la tesi espressa da questo stesso giudice di legittimità con una risalente pronuncia (Cass. n. 3467 del 1973, affermativa del carattere eccezionale, e dunque di stretta interpretazione, delle disposizioni di legge che, in deroga al principio generale dettato dall’art. 1, comma 1 c.c., prevedono la tutela dei diritti del nascituro), La Corte ritenne irrilevante la questione della soggettività giuridica del concepito, ed comunque impredicabile una sua giuridica configurazione al fine di affermare il diritto del nato al risarcimento “non potendo, d’altro canto, quella soggettività evincersi dal fatto che il feto è fatto oggetto di protezione da parte dell’ordinamento”, in evidente e consapevole adesione all’insegnamento della civilistica classica, uno dei cui più autorevoli esponenti ebbe efficacemente ad evidenziare come la soggettività giuridica trovi il suo normale svolgimento nella capacità giuridica (impregiudicata la questione della soggettività indipendente dalla capacità degli enti impersonali, che rileva piuttosto sotto il profilo dell’attitudine alla titolarità di rapporti giuridici attivi e passivi, in guisa di soggetti di diritto – e dal diritto espressamente contemplati e disciplinati sul piano funzionale – come attualmente esistenti, a differenza del nascituro).

D’altronde, non è senza significato la circostanza per la quale sono rimasti privi di seguito, non essendo mai stati discussi neppure in commissione, i due disegni e le due proposte di legge presentati nel corso dell’attuale legislatura, sia al Senato che alla Camera, volti a modificare l’art. 1, comma 1, c.c. sostituendone il testo originario nel senso che “ogni essere umano ha la capacità giuridica fin dal momento del concepimento”.

La sentenza 9700/2011 evidenziò ancora, con argomentazioni che questo collegio interamente condivide, come il diritto di credito di natura risarcitoria appartenesse alla figlia in quanto nata orfana, e come tale destinata a vivere senza la figura paterna, mentre la circostanza che il padre fosse deceduto prima della sua nascita per fatto imputabile a responsabilità di un terzo assumeva significato nella sola misura in cui condotta ed evento materiale costituenti l’illecito si erano già verificati prima che ella nascesse, ma non anche che prima di nascere ella potesse avere acquistato il diritto di credito al risarcimento. Questo, difatti, postula la lesione di una situazione giuridica tutelata dall’ordinamento, da identificarsi, nella specie, con il diritto al godimento del rapporto parentale, diritto certamente inconfigurabile prima della nascita, così come solo successivamente alla nascita si verificano le conseguenze pregiudizievoli che dalla lesione del diritto derivano.

Del rapporto col padre – si legge ancora in sentenza – la figlia è stata privata nascendo, non prima che nascesse. In precedenza, esistevano solo le condizioni ostative al suo insorgere per la già intervenuta morte del padre che la aveva concepita: ma la mancanza del rapporto interpersonale, del legame emozionale che connota la relazione tra padre e figlio è divenuta attuale quando la figlia è venuta alla luce.

In quel momento si è dunque verificata la propagazione intersoggettiva dell’effetto dell’illecito “per la lesione del diritto della figlia (non del feto) al rapporto col padre, e nello stesso momento è sorto il suo diritto di credito al risarcimento, del quale è dunque diventato titolare un soggetto fornito della capacità giuridica per essere nato”.

La sentenza esclude, infine, che possa revocarsi in dubbio l’esistenza di un nesso di causalità fra illecito e danno, inteso questo come insieme di conseguenze pregiudizievoli derivate dall’evento (morte del padre): il figlio cui sia impedito di svilupparsi nell’ambito di questo rapporto genitoriale ne può riportare un pregiudizio che costituisce un danno ingiusto indipendentemente dalla circostanza che egli fosse già nato al momento della morte del padre o che, essendo solo concepito, sia nato successivamente (in tal senso, già Cass. 22 novembre 1993, n. 11503 e Cass. 9 maggio 2000, n. 5881, pur se non condivisibilmente contraddette, di recente – con motivazione, peraltro, meramente assertiva – da Cass. 21 gennaio 2011, n. 1410).

Pur se non direttamente investita della questione che occupa invece oggi il collegio, la sentenza in discorso avrebbe concluso, con un breve quanto significativo obiter dictum, nel senso che, nelle modalità di insorgenza del diritto al risarcimento, il caso scrutinato non si differenziava da quello della lesione colposamente cagionata al feto durante il parto (dunque prima della nascita), da cui derivi, dopo la nascita, il diritto del nato al risarcimento per il patito danno alla salute (danno da lesione del diritto alla salute, dunque, e non già del cosiddetto “diritto a nascere sano”, che costituisce soltanto l’espressione verbale di una fattispecie costituita dalla lesione provocata al feto, ma che non è ricognitiva di un diritto preesistente in capo al concepito, che il diritto alla salute acquista solo con la nascita), aggiungendo poi che, “in altro ambito, null’altro che espressiva di una particolare fattispecie è la locuzione diritto a non nascere se non sano, alla cui mancanza, in passato, si è correlata la risposta negativa al quesito relativo al se sia configurabile il diritto al risarcimento del nato geneticamente malformato nei confronti del medico che non abbia colposamente effettuato una corretta diagnosi in sede ecografica ed abbia così precluso alla madre il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza, che ella avrebbe in ipotesi domandato”. Onde “la diversa costruzione che il collegio ritiene corretta consentirebbe invece, nel caso sopra descritto, una volta esclusa l’esigenza di ravvisare la soggettività giuridica del concepito per affermare la titolarità di un diritto in capo al nato, di riconoscere il diritto al risarcimento anche al nato con malformazioni congenite e non solo ai suoi genitori, come oggi avviene, sembrando del tutto in linea col sistema e con la diffusa sensibilità sociale che sia esteso al feto lo stesso effetto protettivo (per il padre) del rapporto intercorso tra madre e medico; e che, come del resto accade per il padre, il diritto al risarcimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio il quale, per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)”.

La pronuncia del 2011, pur senza affermarlo espressamente, ascrive pertanto la vicenda risarcitoria alla categoria dei danni futuri: a quei danni, cioè, che al tempo della consumazione della condotta illecita non si sono ancora (o non si sono del tutto) prodotti pur in presenza di elementi presuntivi idonei a ritenere che il pregiudizio si produrrà (in argomento, funditus, Cass. 4 febbraio 1992, n. 1147), senza che osti a tale ricostruzione il dato letterale dell’art. 2043 c.c., che discorre di condotta dolosa o colposa che cagiona “ad altri” un danno ingiusto, ma non esige per questo l’attuale esistenza del danneggiato al tempo della condotta lesiva.

6.4.- Va peraltro precisato come fermo convincimento del collegio sia quello per cui l’evaporazione della questione della soggettività giuridica del concepito non conduca punto a rinnegare l’evoluzione subita, in materia, dal nostro ordinamento dal 1942 ad oggi, tanto alla luce delle norme costituzionali, quanto del ruolo sempre più incisivo delle fonti sovranazionali.

Non ignora, difatti, il collegio che l’interpretazione dell’art. 1 c.c. non può prescindere da un dato storico certo, quello secondo il quale il codice del 1942 nasce dalla fusione delle leggi civili con i principi fondamentali del diritto commerciale, e dalla conseguente unificazione dei testi normativi rappresentati dal codice di commercio e da quello civile. La struttura portante del codice così unificato corre dunque lungo l’asse dei rapporti intersoggettivi di tipo patrimoniale piuttosto che attraversare il territorio dei diritti della persona e della personalità.

E’ del pari innegabile che nell’attuale periodo storico, caratterizzato ab imis dalla entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la persona – la sua libertà, la sua dignità – assurge via via a rango di primo motore immobile dell’ordinamento giuridico e della sua interpretazione. Lo stesso giudice delle leggi, con specifico riguardo alla posizione del concepito, ne consacrerà a più riprese un inviolabile interesse alla protezione, sua e della sua vita (particolarmente significativa, al riguardo, la pronuncia 10 febbraio 1997, n. 35). Né può seriamente dubitarsi che l’evoluzione legislativa abbia introdotto una congerie di norme che prendono in considerazione il concepito in quanto tale, come ha avuto cura di evidenziare la citata sentenza n. 10741 del 2009.

Ma tale, apprezzabile, condivisibile e probabilmente inevitabile evoluzione del costume legislativo ed interpretativo non conduce, ipso facto, all’approdo necessario della soggettività del concepito.

Non convince, difatti, la pur suggestiva riflessione recentemente svolta da un’attenta dottrina su di un piano rigorosamente normativo (e dunque a prescindere da considerazioni etiche, filosofiche, teologiche) a sostegno della teoria della soggettività del nascituro.

Essa si fonda sulla generale portata precettiva dell’art. 320, comma 1, c.c. – che attribuisce ai genitori la rappresentanza non solo dei figli nati, ma anche dei nascituri, onde “nell’interpretazione di un linguaggio tecnico come è quello giuridico, non sarebbe revocabile in dubbio che ogni forma di rappresentanza, ivi compresa quella legale, è effettivamente tale se c’è alterità soggettiva fra rappresentante e rappresentato e, dunque, se il rappresentato è il soggetto giuridico in nome del quale il rappresentante agisce”.

L’argomento in realtà prova troppo, perché le stesse norme sulla rappresentanza, in ragione della predicata alterità soggettiva, esigono in capo al rappresentato non soltanto la capacità giuridica, ma altresì quella di agire, limitando al rappresentante la sola capacità di intendere e di volere (se tale rappresentanza è conferita dall’interessato). Ne consegue che la “rappresentanza” disciplinata dall’art. 320 sì come riferita al nascituro è istituto affatto peculiare, di portata sicuramente eccezionale, altrettanto certamente limitato al campo dei diritti patrimoniali. E ciò proprio in conseguenza di quella che altra, pensosa dottrina ha dal suo canto definito “la singolarità della relazione tra madre e nascituro, che fa di ogni decisione riguardo al figlio una decisione della madre”, in una relazione non di alterità ma di immedesimazione, questa sì, realmente “organica” (come implicitamente affermato nell’ordinanza 31.3.1988 n. 389 della Corte costituzionale, che dichiarò, con motivazionetranchant, del tutto inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 194 nella parte in cui non riconosceva rilevanza alla volontà del padre).

Per altro verso, lungi dall’apparire “irrazionale”, appare perfettamente compatibile con la concezione del nascituro inteso come oggetto di tutela e non come soggetto di diritto la disposizione dell’art. 578 c.p. – che punisce la madre che non solo cagiona la morte del proprio neonato subito dopo il parto, ma anche del feto durante il parto, prima che questo si distacchi definitivamente dal proprio organismo -, poiché non pare seriamente discutibile la piena equiparazione delle due situazioni sul piano naturalistico prima ancora che giuridico, una volta che il parto abbia avuto inizio.

L’indiscutibile e indiscussa rilevanza giuridica del concepito nel nostro ordinamento, pur a volerne condivisibilmente predicare, come parte della dottrina esige a gran voce, un innegabile “carattere generale”, non limitato né limitabile ad ipotesi puntuali, non ha pertanto come ineludibile conseguenza la creazione ex nihilo di una sua soggettività, ma si sostanzia, si ripete, nel riconoscimento, ben più pregnante e pragmatico, della sua qualitàdi oggetto speciale di tutela da parte dell’ordinamento.

Così affrancando il discorso giuridico (come osserverà, di recente, una avveduta dottrina) “dai pantani della soggettività, onde assegnare al concepito garanzie di difesa senza obbligare l’interprete alla necessità pregiudiziale di attribuirgli qualità soggettive nel significato e con le conseguenze che il diritto riconosce a tale concetto”, e finalmente liberi “dalle categorie metafisiche costituite dalla triade concettuale personalità, soggettività, capacità”, la questione della protezione del concepito non si discosta da quella della protezione dell’essere umano, nel senso che sarà compito di un essere umano già vivente assicurare tutela a chi (come magistralmente insegnato dalla Corte costituzionale) essere umano deve ancora diventare. E’ sotto questo profilo che va fermamente respinta l’opinione di chi, dalla risarcibilità del danno da nascita malformata, pretende di inferire l’esistenza (e la rilevanza giuridica) di un diritto ad essere abortito quale rivendicazione propria del nascituro/soggetto di diritto, alla stregua di un preteso principio costituzionale di parità di trattamento, tutte le volte che tale diritto all’aborto sarebbe stato esercitato dalla madre se opportunamente informata della malformazione su sua esplicita richiesta. Sostenere – come a più riprese è stato sostenuto, specie in seno alla dottrina francese all’indomani della sentenza Perruche – che, se alla madre è consentito evitare la nascita in vista di una possibile malattia psichica, sarebbe del tutto contrario al principio di uguaglianza negare il medesimo diritto al minore, risulta una evidente aporia, proprio perché il diritto vantato dal minore non è affatto volto alla sua soppressione “ora per allora”, né tantomeno alla rivendicazione di dover nascere sano ovvero di dover non nascere se non sano in attuazione di una ipotetica quanto inconcepibile eugenetica postnatale, ma alla riparazione di una condizione di pregiudizio per via di un risarcimento funzionale ad alleviarne sofferenze e infermità, talora prevalenti sul valore della vita stessa.

7.- All’esito della ricognizione tanto delle pronunce più significative rese in subiecta materiada questa corte, quanto del sempre fondamentale contributo della dottrina (ancor più necessario tutte le volte che il diritto è chiamato ad affrontare tematiche che trascendono la funzione sua propria e gli strumenti di analisi di cui dispone), sembra potersi avviare ad appagante soluzione la questione processuale sottoposta all’esame del collegio nella sua dimensione rigorosamente giuridica, e altrettanto rigorosamente ancorata al dato normativo (e dunque scevra da facili suggestioni etiche, filosofiche, o anche solo “creative”).

Vanno conseguentemente analizzati tutti gli elementi della fattispecie concreta onde inferirne la legittima riconducibilità alla fattispecie astratta dell’illecito aquiliano in tutti i suoi elementi di struttura così come descritti dall’art. 2043 c.c.. Premesso che l’analisi delle questioni relative ai criteri di valutazione del danno, che pur completerebbe l’indagine, è preclusa dall’estraneità del tema al presente giudizio, il collegio ritiene necessario condurre l’esame della fattispecie con riguardo:

· al soggetto legittimato ad agire (rectius alla legittimazione soggettiva attiva);

· all’oggetto della tutela;

· all’evento di danno;

· al nesso causale;

· alla colpa dell’agente;

· ai presupposti normativi della richiesta risarcitoria (gli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978)

· ai presupposti fattuali della domanda risarcitoria (la richiesta di diagnosi funzionale all’aborto da parte della gestante);

· alla titolarità del diritto di rappresentanza nell’esercizio del diritto al risarcimento (e all’eventuale conflitto di interessi con i genitori);

· al riparto degli oneri probatori.

La Corte non ritiene, difatti, del tutto appagante, nel dar vita ad un così significativo revirement rispetto alle pronunce del 2004 e del 2009, né l’evocazione di quella sensazione di sotterfugio cui ricorrerebbe la giurisprudenza per riconoscere il risarcimento in via indiretta all’handicappato, né la pur suggestiva considerazione volta a rilevare la contraddizione logica del riconoscere il risarcimento del danno ai genitori e non riconoscerlo al minore nato con la malattia, contraddizione resa ancor più evidente se il risarcimento è riconosciuto non solo alla gestante, poiché è stato leso il suo diritto ad interrompere la gravidanza, ma anche al marito della stessa (che non ha un tale diritto), sol perché è diventato padre di un bambino anormale.

7.1.- La legittimazione soggettiva.

Alla luce delle considerazioni che precedono, non sembra seriamente discutibile la predicabilità di una legittimazione attiva del neonato in proprio all’azione di risarcimento.

Superate le suggestioni rappresentate dall’ostacolo “ontologico” – l’impossibilità per un essere vivente di esistere come soggetto prima della sua vita – e convertita in questione giuridica la posizione del soggetto che, attualmente esistente, avanza pretese risarcitorie (ciò che sposterebbe il piano dell’analisi non sul versante della legittimazione soggettiva astratta, ma della titolarità concreta del rapporto controverso) e prescindendo del tutto, per il momento, dall’analisi degli ulteriori elementi della fattispecie (id est il diritto leso, l’evento di danno, la sua ingiustizia, il nesso di causalità), va riconosciuto al neonato/soggetto di diritto/giuridicamente capace (art. 1 c.c.) il diritto a chiedere il risarcimento dal momento in cui è nato. Sul piano giuridico (che, non va dimenticato, è dimensione meta-reale del pensiero, nella quale le stesse categorie spazio/tempo si annullano o si modificano, se si pensa al commercio elettronico o alla retroattività della condizione sospensiva) nulla sembra diversificare la situazione soggettiva dell’avente diritto al risarcimento conseguente alla nascita malformata da quelle tradizionali pratiche testamentarie di diritto comune attraverso le quali vengono riconosciuti e attribuiti diritti ad una “persona” che ancora deve nascere. Né rileva, ai fini della predicabilità di tale legittimazione soggettiva, la specularità del senso dell’operazione – poichè non di una volontà ascendente che istituisce un soggetto che nascerà si tratta, bensì di un soggetto che, alla sua nascita, istituisce retroattivamente sé stesso, divenendo così titolare di un diritto soggettivo nuovo, il cui esercizio non richiede, peraltro, la finzione di un soggetto di diritto prenatale.

Soggetto “autore” del minore malformato non è, pertanto, l’ascendente, il testatore, il donante, ma sé stesso. Ben più che un nuovo diritto soggettivo, il riconoscimento di tale legittimazione istituisce un nuovo soggetto autonomo, al punto che la qualità innata della sua vita diviene un diritto esigibile della persona, senza che – come è stato assai suggestivamente scritto – “questo nuovo soggetto di diritto divenga un mostro senza passato”. E senza che, va aggiunto, la sua pretesa risarcitoria appaia una mostruosità senza passato, confondendo il tempo della vita con il tempo della costruzione (e della finzione) giuridica.

7.2.- L’interesse tutelato.

L’assemblea plenaria della corte di cassazione francese, nell’ammettere la legittimità della richiesta risarcitoria in proprio del piccolo Nicolas Perruche, si limitò ad osservare che questi aveva effettivamente subito un pregiudizio risultante dall’handicap particolarmente grave da cui era afflitto, specificando che la causalità non potesse, nella specie, essere ridotta alla sua dimensione scientifica o logica, ma andasse intesa in senso “giuridico”.

La sentenza, vivacemente contestata, pose e pone tuttora un problema di non poco momento: quello, cioè, di individuare con esattezza la situazione soggettiva di cui si lamenta la lesione, onde ricondurla al conseguente evento di danno che, da quella lesione, ebbe a generarsi (per poi ricondurre ancora la condotta colpevole alla lesione della situazione soggettiva ed all’evento valutato in termini di contra ius).

E’ convincimento del collegio che la domanda risarcitoria avanzata personalmente dal bambino malformato trovi il suo fondamento negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 della Costituzione.

Il vulnus lamentato da parte del minore malformato, difatti, non è la malformazione in sé considerata – non è, in altri termini, l’infermità intesa in senso naturalistico (o secondo i dettami della scienza medica), bensì lo stato funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata intese come proiezione dinamica dell’esistenza che non è semplice somma algebrica della vita e dell’handicap, ma sintesi di vita ed handicap, sintesi generatrice di una vita handicappata.

E’ violato il dettato dell’art. 32 della Costituzione, intesa la salute non soltanto nella sua dimensione statica di assenza di malattia, ma come condizione dinamico/funzionale di benessere psicofisico – come testualmente si legge nell’art. 1 lettera o) del d.lgs. n. 81 del 2008, e come recentemente riaffermato da questa stessa Corte con la sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748.

Deve ancora ritenersi consumata:

– la violazione della più generale norma dell’art. 2 della Costituzione, apparendo innegabile la limitazione del diritto del minore allo svolgimento della propria personalità sia come singolo sia nelle formazioni sociali;

– dell’art. 3 della Costituzione, nella misura in cui si renderà sempre più evidente la limitazione al pieno sviluppo della persona;

– degli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, volta che l’arrivo del minore in una dimensione familiare “alterata” (come lascia presumere il fatto che la madre si fosse già emotivamente predisposta, se correttamente informata della malformazione, ad interrompere la gravidanza, in previsione di una sua futura malattia fisica o psichica al cospetto di una nascita dichiaratamente indesiderata) impedisce o rende più ardua la concreta e costante attuazione dei diritti-doveri dei genitori sanciti dal dettato costituzionale, che tutela la vita familiare nel suo libero e sereno svolgimento sotto il profilo dell’istruzione, educazione, mantenimento dei figli.

Tali situazioni soggettive, giuridicamente tutelate e giuridicamente rilevanti, sono pertanto riconducibili non alla sola nascita né al solo handicap, bensì alla nascita ed alla futura vita handicappata intesa nella sua più ampia accezione funzionale, la cui “diversità” non è discriminata in un giudizio metagiuridico di disvalore tra nascita e non nascita, ma soltanto tutelata, rispettata ed alleviata per via risarcitoria.

Non è a discorrersi, pertanto, di non meritevolezza di una vita handicappata, ma una vita che merita di essere vissuta meno disagevolmente, attribuendo direttamente al soggetto che di tale condizione di disagio è personalmente portatore il dovuto importo risarcitorio, senza mediazioni di terzi, quand’anche fossero i genitori, ipoteticamente liberi di utilizzare il risarcimento a loro riconosciuto ai più disparati fini.

Non coglie dunque nel segno la ulteriore critica, mossa dai sostenitori della non risarcibilità autonoma del danno da nascita malformata, che nega ogni legittimazione ad agire al minore in nome di un preteso rispetto della sua dignità sull’assunto per cui qualificare la nascita in termini di pregiudizio costituirebbe una mancanza di rispetto alla dignità del minore.

Tralasciando ogni considerazione in ordine ad una tale concezione della dignità umana (dichiaratamente ostile al soggettivismo della modernità dei diritti dell’uomo, e funzionale ad un’idea che non di diritto dell’uomo in quanto individuo si discorra, bensì di diritti del genere umano come tali opponibili allo stesso individuo onde assoggettarlo ad obblighi verso questa generica qualità umana che lo trascende, con conseguente negazione del fondamentale rapporto dell’individuo con sé stesso in una non negoziabile dimensione disuitas), va osservato che un vulnus alla propria dignità così concepito confonde la dimensione giuridica della richiesta individuale di risarcimento di un pregiudizio altrettanto individuale da parte della vittima di quel pregiudizio con la dimensione etica dell’attentato pregiudizievole non al sé individuale, ma ad una pretesa alterità trascendente che alberga nel singolo essere umano in quanto rappresentante di un genere.

Al di là della condivisibilità sul medesimo piano dell’etica di tale concezione, è innegabile che essa si pone del tutto fuori dal territorio segnato dalle norme giuridiche e dalla relativa interpretazione.

Deve pertanto concludersi che l’interesse giuridicamente protetto, del quale viene richiesta tutela da parte del minore ai sensi degli articoli della Carta fondamentale dianzi citati, è quello che gli consente di alleviare, sul piano risarcitorio, la propria condizione di vita, destinata a una non del tutto libera estrinsecazione secondo gli auspici dal Costituente: il quale ha identificato l’intangibile essenza della Carta fondamentale nei diritti inviolabili da esercitarsi dall’individuo come singolo e nelle formazioni sociali ove svolgere la propria personalità, nel pieno sviluppo della persona umana, nell’istituzione familiare, nella salute.

Non assume, pertanto, alcun rilievo “giuridico” la dimensione prenatale del minore, quella nel corso della quale la madre avrebbe, se informata, esercitato il diritto all’interruzione della gravidanza. Se l’esercizio di questo diritto fosse stato assicurato alla gestante, la dimensione del non essere del nascituro impedisce di attribuirle qualsivoglia rilevanza giuridica.

Come accade in altro meno nobile territorio del diritto, e cioè in tema di nullità negoziale, l’interprete si trova al cospetto non già di una qualificazione giuridica negativa di un fatto (che ne consentirebbe uno speculare parallelismo con la corrispondente qualificazione positiva), bensì di una inqualificazione giuridica tout court.

Ciò che è giuridicamente in-qualificato non ha cittadinanza nel mondo del diritto, onde la assoluta irrilevanza dell’affermazione secondo la quale “nessuno potrebbe preferire la non vita alla vita”, funzionale ad un “dovere di vivere” – ancora una volta relegato entro i confini di una specifica visione e dimensione etica delle vicende umane priva di seri riscontri normativi, come già affermato da questa Corte, in tema di diritti di fine vita con la già ricordata sentenza del 2007 – che in nessun caso può costituire legittimo speculum, sul piano normativo, del diritto individuale alla vita.

Il ragionamento apparentemente sillogistico, elaborato da gran parte della dottrina francese all’indomani del caso Perruche, secondo cui “sarebbe insanabilmente contraddittorio considerare che il bambino handicappato, una volta nato, possa usare la sua acquisita qualità di soggetto di diritti per chiedere il risarcimento del danno risultante dal fatto di non essere stato abortito dalla madre, cosa che gli avrebbe impedito di diventare soggetto di diritti”, perde ogni ragionevole senso alla luce di quanto sinora esposto circa l’aspetto soggettivo ed oggettivo della vicenda: l’obiezione caratterizza, difatti, l’enunciato in termini di esigenza meramente logico-discorsiva, che non impone al soggetto un obbligo di vivere, ma un dovere linguistico di non affermare nulla che possa portarlo a predicare sé stesso come inesistente.

Tutto ciò resta ai margini del discorso giuridico, così come estraneo al diritto positivo, se non nei limiti del suo altrettanto positivo recepimento in norme (ove esistenti), è una considerazione razionale della natura dell’uomo che ne implichi un obbligo di vivere, avendo di converso l’ordinamento positivo eletto ad essenza dei diritti dell’uomo, prima ancora della dignità (diversamente dall’ordinamento tedesco, in conseguenza della storia di quel popolo) la libertà dell’individuo, che si autolimita nel contratto sociale, ma resta intatta nei confronti di sé stesso, in una dimensione dell’essere che legittima alfine anche il non fare o il rifiutare.

7.3.- L’evento di danno.

Sgombrato il campo dall’equivoco costituito dalla pretesa equazione “diritto di nascere o di non nascere/diritto al risarcimento da nascita malformata” (pare utile rammentare che la stessa corte di cassazione francese, il 13 luglio 2001, pochi mesi prima dell’arret Perruche, aveva respinto un ricorso che trasponeva erroneamente il pregiudizio “sul fatto stesso di essere in vita”), risulta innegabile come l’esercizio del diritto al risarcimento da parte del minore in proprio non sia in alcun modo riconducibile ad un impersonale “non nascere”, ma si riconnetta, personalmente e soggettivamente, a quella singola, puntuale e irripetibile vicenda umana che riguarda quel determinato (e altrettanto irripetibile) soggetto che, invocando un risarcimento, fa istanza al giudice di piena attuazione del dettato costituzionale dianzi evocato, onde essere messo in condizione di poter vivere meno disagevolmente, anelando ad una meno incompleta realizzazione dei suoi diritti di individuo singolo e di parte sociale scolpiti nell’art. 2 della Costituzione.

E’ pertanto un vero e proprio “dibattito sulle ombre” quello volto a sostenere che tale facoltà, in guisa di diritto a sé stessi, potrebbe attuarsi soltanto attraverso due modalità dell’impossibile, il non essere dell’essere ovvero l’essere del non essere. Riflessioni, si ripete, di indiscutibile spessore filosofico. Ma irrilevanti sul piano giuridico se, tra natura e diritto (come lo stesso giusnaturalismo ammette), si erge il triplice filtro costituito dalla legislazione, dalla giurisdizione, dalla interpretazione.

E’ dunque confinata nella sfera dell’irrilevante giuridico ogni questione formulata fuori da tale dimensione, in particolare quella (incontrollabile dal diritto) del possibile e del non-possibile ontologico.

La legittimità dell’istanza risarcitoria iure proprio del minore deriva, pertanto, da una omissione colpevole cui consegue non il danno della sua esistenza, né quello della malformazione di sé sola considerata, ma la sua stessa esistenza diversamente abile, che discende a sua volta dalla possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione con il feto non di rappresentante-rappresentato, ma di includente-incluso.

Una esistenza diversamente abile rettamente intesa come sintesi dinamica inscindibile quanto irredimibile, e non come algida fictio iuris ovvero arida somma algebrica delle sue componenti (nascita+handicap=risarcimento), né tantomeno come una condizione deteriore dell’essere negativamente caratterizzata, ma situazione esistenziale che, in presenza di tutti gli elementi della fattispecie astratta dell’illecito, consente e impone al diritto di intervenire in termini risarcitori (l’unico intervento consentito al diritto, amaramente chiamato, in tali vicende, a trasformare il dolore in denaro) affinchè quella condizione umana ne risulti alleviata, assicurando al minore una vita meno disagevole.

Consentendo, alfine, per il tramite del diritto, ciò che una logica astrattamente giusnaturalitica vorrebbe viceversa negare.

L’evento di danno è costituito, pertanto, nella specie, dalla individuazione di sintesi della “nascita malformata”, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente, e non già destinata “a realizzare un suicidio per interposto risarcimento danni”, come pure s’è talvolta opinato.

7.4.- Il nesso di causa.

La esistenza di un nesso di causalità giuridicamente rilevante tra la condotta del sanitario e l’evento di danno lamentato a seguito della violazione di un interesse costituzionalmente protetto del minore (questione che apparve immediatamente come la più problematica dell’intera vicenda risarcitoria all’indomani della sentenza Perruche, e che non venne affrontata funditus dalle due sentenze di questa corte che, nel 2004 e nel 2009, esclusero sotto altro aspetto l’esistenza di un autonomo diritto al risarcimento in capo al minore) può ricevere soddisfacente soluzione all’esito della ricognizione dell’evento di danno così come appena operata.

Si sono correttamente sostenute, in proposito, tanto la irrilevanza di un nesso causale tra l’omissione di diagnosi e la nascita – attesa la inconfigurabilità di quest’ultima in termini di evento dannoso -, quanto la inesistenza di tale nesso tra la condotta omissiva e l’handicap in sé considerato, atteso che la malformazione non è conseguenza dell’omissione bensì del presupposto di natura genetica, rispetto al quale la condotta del sanitario è muta sul piano della rilevanza eziologica.

Rilevanza che, di converso, appare sicuramente predicabile una volta identificato con esattezza l’evento di danno nella nascita malformata intesa nei sensi poc’anzi esposti.

Tale evento, nella più volte illustrata proiezione dinamica dell’esistente, appare senz’altro riconducibile, secondo un giudizio prognostico ex post, all’omissione, volta che una condotta diligente e incolpevole avrebbe consentito alla donna di esercitare il suo diritto all’aborto (sì come espressamente dichiarato al medico nel caso di specie).

Una diversa soluzione, sul piano causale, si risolverebbe nell’inammissibile annullamento della volontà della gestante, senza che, in proposito possano assumere rilievo ipotesi alternative confinate, nella specie, in una dimensione dell’improbabile – e dunque del giuridicamente irrilevante – circa la eventualità (come ipotizzata dalla corte territoriale) di un futuro mutamento di decisione da parte della gestante stessa in ordine alla pur programmata interruzione condizionata di gravidanza.

Va pertanto affermata, sul piano del nesso di condizionamento, la equiparazione quoad effecta tra la fattispecie dell’errore medico che non abbia evitato l’handicap evitabile (l’handicap, si badi, non la nascita handicappata), ovvero che tale handicap abbia cagionato (come nella ipotesi scrutinata dalla sentenza 10741/2009) e l’errore medico che non ha evitato (o ha concorso a non evitare) la nascita malformata (evitabile, senza l’errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di scelta della gestante derivante da una espressa disposizione di legge). Facoltà il cui esercizio la gestante aveva, nella specie, espressamente dichiarato di voler esercitare, donde l’evidente paralogismo che si cela nella motivazione della corte territoriale nel momento in cui onera la odierna ricorrente dell’incombente di provare quello che risultava già provato ed acquisito agli atti del processo.

7.5.- La condotta colpevole

Si è già avuto modo di evidenziare, nel corso dell’esame del secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, come la colpevolezza della condotta si sia, nella specie, manifestata sotto il duplice profilo della non sufficiente attendibilità del test in presenza di una esplicita richiesta di informazioni finalizzate, se del caso, all’interruzione della gravidanza da parte della gestante, e dal difetto di informazioni circa la gamma complessiva delle possibili indagini e dei rischi ad essa correlati, onde sull’argomento non appaiono necessarie ulteriori precisazioni.

7.6.- Gli oneri probatori

L’esistenza di una espressa e inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica, quale quella espressa dalla gestante nel caso di specie, esime il collegio da ogni ulteriore valutazione circa la evidente e determinante rilevanza di tale volontà.

Ritiene tuttavia la Corte che, all’esito della disamina che precede, un chiarimento sul tema degli oneri probatori si renda opportuno; con l’ovvia premessa che il problema della prova che all’interruzione della gravidanza della donna si sarebbe determinata se fosse stata informata si porrà esclusivamente nel caso in cui il convenuto ne contesti l’assunto (anche implicitamente contenuto nell’atto di citazione)

Nell’ipotesi in cui tale volontà non sia stata espressamente manifestata dalla gestante, difatti, la presunzione di cui sembra legittimo discorrere sul piano dell’inferenza logica di un’intenzione (l’interruzione di gravidanza) desumibile da una condotta significante (la sola richiesta di accertamento diagnostico), ha indubbio carattere di presunzione semplice.

Essa costituisce, cioè, l’unico elemento indiziante di una volontà che si presume orientata verso un determinato esito finale.

Da tale elemento indiziante il giudice di merito è chiamato a desumere, caso per caso, senza il ricorso a generalizzazioni di tipo statistico (o di cd. probabilità a priori), le conseguenti inferenze probatorie e il successivo riparto dei relativi oneri.

Il giudice di merito dovrà in altri termini accertare e valutare, secondo il suo prudente apprezzamento, così come disposto dall’art. 116 del codice di rito, se, tenuto conto di tutte le circostanze del singolo caso concreto, tale presunzione semplice – che può essere legittimamente ricondotta a quella vicenda probatoria definita dalla giurisprudenza di questa corte come “indizio isolato” (la richiesta di accertamento diagnostico) del fatto da provare (l’interruzione di gravidanza) – possa o meno essere ritenuta sufficiente a provare quel fatto.

La rilevanza di tale presunzione andrà, inoltre, valutata da quello stesso giudice anche in relazione alla gravità della malformazione non diagnosticata).

Di volta in volta, escluso qualsivoglia automatismo probatorio, le parti, preso atto della situazione processuale di partenza costituita dall’esistenza di una vicenda probatoria “di indizio isolato” rispetto al fatto da provare (conseguentemente presunto o presumibile), sono chiamate a fornire al giudice gli elementi, che potranno dipanarsi anche sul piano della prova logica, funzionali a dirimere la questione del se le circostanze concrete e specifiche della concreta vicenda processuale consentano una valutazione di sufficienza o meno di quella presunzione semplice.

La questione, assai delicata, della materiale possibilità di ricostruzione dell’efficacia probatoria della presunzione semplice in seno al processo, hic et inde, da parte dei difensori di ciascuna parte, trova risposta, ancora una volta, nella specificità ed unicità di quello stesso processo: i fatti così come narrati, le circostanze come di volta in volta evidenziate, le stesse qualità personali delle parti agenti e resistenti (così esemplificando in modo di certo non esaustivo l’elenco degli elementi utili alla formazione di un convincimento) potranno indurre i protagonisti del processo ad integrare o svilire la portata della presunzione semplice che, diversamente da una semplice equazione, non sempre può indurre alla automatica significazione “richiesta di diagnosi=interruzione di gravidanza” in caso di diagnosi di malformazioni.

In mancanza assoluta di qualsivoglia ulteriore elemento che “colori” processualmente la presunzione de qua, il principio di vicinanza della prova e quello della estrema difficoltà (ai confini con la materiale impossibilità) di fornire la prova negativa di un fatto induce a ritenere che sia onere di parte attrice integrare il contenuto di quella presunzione con elementi ulteriori (di qualsiasi genere) da sottoporre all’esame del giudice per una valutazione finale circa la corrispondenza della presunzione stessa all’asserto illustrato in citazione.

Non sembra, difatti, predicabile sempre e comunque la legittimità del ricorso ad un criterio improntato ad un ipotetico id quod plerumque accidit perchè, in assenza di qualsivoglia, ulteriore dichiarazione di intenti, non è lecito inferire sempre, sic et simpliciter, da una richiesta diagnostica la automatica esclusione del’intenzione di portare a termine la gravidanza.

Ciò è a dirsi, oltre che sotto il profilo del corretto riparto degli oneri probatori in ipotesi di fatto negativo da dimostrare (Cass. sez. un. 13533/2001), anche sotto quello, non meno rilevante, di evitare di trasformare un giudizio risarcitorio (e la natura stessa della responsabilità civile) in una sorta di vicenda para-assicurativa ex post, consentendo sempre e comunque, mercé l’automatica allegazione della presunzione semplice in discorso, di introdurre istanze risarcitorie anche se la volontà della gestante sarebbe stata diversamente orientata.

Diverrebbe, in tal caso, vicenda processuale non incerta, ma già segnata ab origine nel suo vittorioso esito finale, quella che finisce per rendere automatico ogni risarcimento all’esito di una semplice richiesta diagnostica nonostante la impossibilità della prova di un fatto negativo da parte del convenuto (la volontà di non abortire nonostante la diagnosi infausta).

7.7.- La rappresentanza del minore

La questione centrale che pone il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in proprio in capo al minore, quanto al suo conseguente esercizio per mezzo dei suoi legali rappresentanti – specie quando la intensità del suo handicap gli impedisce e gli impedirà in futuro qualunque espressione di volontà -, ruota attorno al pur ipotizzato conflitto di interessi che potrebbe investire i soggetti della vicenda risarcitoria.

Sono state già esposte in precedenza le ragioni poste a fondamento dell’esclusione di ogni potenziale conflitto, e della insostenibilità di ogni ipotetica rivalsa da parte del minore nei confronti della madre.

A quest’ultima, e a lei soltanto, è rimessa la facoltà di decidere, in solitudine, della prosecuzione o meno della gravidanza.

La dimensione diacronica della vicenda risarcitoria mostra, così, tutta la sua rilevanza sul piano del diritto, volta che, vulnerata la facoltà di decidere per tale interruzione, il rapporto di immedesimazione rappresentativa, anch’esso spettante per legge alla madre (oltre che al padre), consente a quest’ultima di invocare un risarcimento per la nascita malformata del figlio.

Possono in tal guisa trovare soluzione le stesse aporie più volte denunciate in dottrina circa la legittimità di una richiesta risarcitoria avanzata dal padre (oltre che dalla madre) del minore malformato e non anche da quest’ultimo, aporie che non avrebbero potuto, peraltro, costituire esse sole giustificazione e motivazione, in punto di diritto, della soluzione oggi adottata.

***

8.- Il sesto motivo risulta assorbito nell’accoglimento di quelli che lo precedono, dovendo il giudice del merito provvedere ad una completa revisione della disciplina delle spese processuali, il cui precedente regolamento deve intendersi (a prescindere da qualsiasi considerazione sul quantum), ipso facto caducato nell’an.

9.- In applicazione dei suindicati principi di diritto, il giudice del rinvio, da designarsi nella stessa Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, nel regolare anche le spese del giudizio di legittimità, è chiamato a rivalutare ex novo la fondatezza della richiesta risarcitoria sia della minore, sia dei suoi familiari.

P.Q.M.

la Corte accoglie il primo, secondo, terzo, quarto e quinto motivo del ricorso, dichiara assorbito il sesto, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Venezia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile, il 10.1.2012.

IL CONSIGLIERE ESTENSORE

IL PRESIDENTE

L’immagine del post è stata realizzata da Weird Beard, rilasciata con licenza cc.

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