La Suprema Corte, con la pronuncia n. 16474/12, coglie l'occasione per fare nuovamente il punto sui limiti della responsabilità del datore di lavoro nel caso di infortuni.
Il caso in questione riguarda un incidente mortale occorso al Sig. XXX, caduto dalla copertura in plexiglass del tetto di un capannone.
La società si difendeva sostenendo che l'evento morte sarebbe riconducibile “a colpa del lavoratore il quale, benchè edotto dei rischi dei lucernari in plexiglass e pur in presenza delle misure atte ad evitare il camminamento degli stessi, aveva agito in modo assolutamente improvvido, con la conseguenza che l'infortunio mortale che ne era derivato non poteva essere attribuito a responsabilità del datore di lavoro”.
Inoltre si sosteneva come l'infortunato fosse salito sul tetto ancorchè il programma dei lavori prevedesse che egli restasse a terra.
La Corte territoriale, invece, aveva innanzitutto accertato che l'amministratore della società si era rivolto alla vittima chiedendogli di “organizzare il lavoro di pulitura delle canaline”.
Significativa era stata, dunque, a parere dei Giudici, l'esistenza di una disposizione che, in quanto diretta alla soluzione del problema delle infiltrazioni di acqua che si erano verificate sul tetto del magazzino e per l'ampiezza dell'ordine e l'assenza di specificazioni, non poteva non comportare (o comunque non era tale da escludere ragionevolmente) anche una verifica diretta sul tetto del magazzino.
Al riguardo, come più volte specificato dai Giudici di Piazza Cavour (cfr. Cass. n. 7328 del 17 aprile 2004, Cass. n. 7127 del 23 marzo 2007, Cass. n. 19559 del 13 settembre 2006, Cass. n. 5493 del 14 marzo 2006, Cass. n. 4980 del 8 marzo 2006 e, più recentemente, Cass. n. 9817 del 14 aprile 2008, nonchè Cass. n. 3786 del 17 febbraio 2009, Cass. n. 4656 del 25 febbraio 2011), costituisce principio indiscusso che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore “non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, cosi da porsi come causa esclusiva dell'evento. Il comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti i caratteri estremi sopra indicati, può invece rilevare come concausa dell'infortunio, ed in tal caso la responsabilità del datore di lavoro può essere proporzionalmente ridotta, fermo restando che, allorchè la condotta del lavoratore sia attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro per lo svolgimento di una determinata attività lavorativa, nonostante la sussistenza di condizioni di pericolo per le modalità dell'esecuzione, il comportamento imprudente o negligente del lavoratore assume efficacia soltanto di mera occasione o modalità dell'iter produttivo dell'evento, la cui responsabilità va, dunque ascritta per intero al datore di lavoro”.
Tornando al caso di specie, come già sottolineato, dall'istruttoria era emerso che il datore di lavoro aveva ordinato alla vittima di occuparsi del lavoro di pulitura delle canaline, per cui la condotta di quest'ultimo, a parere dei Giudici di legittimità “proprio perchè “imposta” in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell'ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso (cfr. in tal senso Cass. n. 5024 del 8 aprile 2002; Cass. n. 3213 del 18 febbraio 2004, Cass. n. 1994 del 13 febbraio 2012)”.
In altre parole, secondo la Cassazione, non vi sarebbero gli estremi dell'abnormità e dell'esorbitanza rispetto alle direttive ricevute o alle mansioni da svolgere, le quali potrebbero esimere il datore di lavoro da responsabilità.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 27 settembre 2012, n. 16474
Svolgimento del processo
Con sentenza del 26/11/2004 il Tribunale, giudice del lavoro, di Torino respingeva la domanda rivolta dall'I.N.A.I.L. nei confronti della V. s.r.l., avente ad oggetto la condanna di quest'ultima, ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1964, art. 10, al pagamento della somma di Euro 264.798,00, corrispondente a quanto complessivamente erogato dall'Istituto assicuratore a seguito dell'infortunio mortale occorso il (OMISSIS) al sig. C.V., già dipendente della società. Riteneva il primo giudice che la condotta tenuta dal lavoratore fosse stata “anomala ed esorbitante” rispetto all'attività protetta la quale, peraltro, era stata affidata ad un soggetto diverso dall' infortunato.
Avverso tale sentenza proponeva appello l'I.N.A.I.L. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l'accoglimento della domanda originariamente proposta.
La Corte di Appello di Torino, con sentenza del 18 settembre 2006, accoglieva il gravame e condannava la V. s.r.l. al pagamento in favore dell'I.N.A.I.L. della somma di Euro 264.798,00 oltre interessi e rivalutazione nonchè al pagamento delle spese di entrambi gradi di giudizio.
La Corte territoriale perveniva a tale decisione ritenendo che dalle stesse dichiarazioni rese dall'amministratore della società nel corso del procedimento penale fosse emerso che egli si era rivolto alla vittima chiedendo di organizzare il lavoro di pulitura delle canaline ed il fatto che, in un primo momento, si fosse incaricato di salire sul tetto altro dipendente (che già in passato aveva svolto analoga operazione), non escludeva che il C. potesse ed anzi dovesse recarsi sul luogo ove presumibilmente si era verificata la causa dell'infiltrazione; in conseguenza era da escludersi la sussistenza di una condotta imprevedibile, abnorme e addirittura insensata. In ogni caso riteneva che, anche a voler considerare la presenza del C. sul tetto il risultato di una iniziativa personale, ciò non era sufficiente ad attribuire al comportamento del lavoratore i caratteri dell'abnormità, dell'inopinabilità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute ovvero dell'atipicità ed eccezionalità, in presenza dei quali è possibile l'esonero totale da responsabilità in ordine all'infortunio occorso. Escludeva, altresì, la Corte di merito ogni colpa concorrente della vittima che aveva agito scontando solo la propria inesperienza, senza conoscere nulla dei luoghi e delle loro caratteristiche ed affermava la responsabilità datoriale in relazione a diversi profili (mancanza di direttive quanto all'organizzazione del lavoro richiesto, mancanza di preventiva valutazione dei rischi, omessa informazione, omessa fornitura di strumenti di protezione individuale). Quanto all'ammontare delle somme pretese dall'I.N.A.I.L. riteneva che le stesse corrispondessero all'importo erogato dall'Istituto ai superstiti e rispetto al cui ammontare non erano state sollevate osservazioni.
La società V. propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolandolo su cinque motivi.
Resiste con controricorso l'I.N.A.I.L. che ha anche depositato memoria ai sensi dell'art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la società lamenta “motivazione omessa, insufficiente, contraddittoria ed illogica sui fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 – violazione, falsa applicazione degli artt. 115, 116, 132 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. Rileva che la Corte di merito ha fondato la propria decisione sulla circostanza che “non sono state impartite direttive quanto all'organizzazione del lavoro” contraddetta sia da quanto riportato in sentenza con riguardo alle disposizioni impartite dall'amministratore della V. al C. ed al F., sia dalle deposizioni dei testi F. e M. e S., sia dagli esiti degli accertamenti di cui alla sentenza di primo grado. Rileva che non era certo sufficiente ad invalidare il “programma dei lavori” come disposto dall'azienda affermare che così si fosse deciso “del tutto informalmente, tra i due colleghi”. Evidenzia che non si comprende il motivo per cui si dovessero dare istruzioni in merito ai lavori sul tetto tanto al C. – che non ne necessitava, dovendo restare a terra – quanto al F. – già salito sul tetto per lo stesso problema qualche mese prima -. Rileva che del pari contraddittoria è la motivazione nella parte in cui la Corte afferma che il fatto che, in un primo momento si fosse incaricato di salire il F., non escludeva che il C. potesse ed anzi dovesse recarsi sul luogo ove presumibilmente si era verificata la causa dell'infiltrazione perchè ciò non solo contrastava con l'esistenza di un programma di lavoro ma anche con le deposizioni dei testi F. e M. e con le annotazioni di P.G.. Rileva, altresì, che l'affermazione relativa alla mancata informazione dei lavoratori dei rischi cui erano sottoposti contrastava con quanto attestato dagli incontestati documenti del fascicolo V. di primo grado (doc. 5 designazione del C. quale rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ai sensi della L. n. 626 del 1994 sin dal 1995; doc. 4 dichiarazione del C. e del B. di aver informato i lavoratori dei rischi in cui possono incorrere; doc. 6 valutazione dei rischi; doc. 7 attestato API relativo al C.) e con quanto riferito dai testi Ba., C.M., B.M., Ma.
P.. Anche l'affermazione della Corte secondo cui “…non sono state adottate misure in grado di delimitare i lucernari e di evitarne il calpestio…” era in contrasto con il contenuto dei verbali delle deposizioni rese nell'ambito del procedimento penale dai testi M. e F. nonchè con le dichiarazioni rese innanzi al giudice del lavoro dai testi S. e C.M., con gli accertamenti del Giudice di primo grado, con la deposizione del teste F., con i referti fotografici. Ad avviso della ricorrente, in sostanza, esistevano passaggi sicuri atti ad evitare il calpestio dei lucernari – corridoi in cemento sul perimetro del capannone e tetto in lamiera senza lucernari sugli uffici – noti anche a C.V. il quale, peraltro, in ragione delle funzioni e cognizioni sue proprie quale rappresentate dei lavoratori per la sicurezza non avrebbe potuto non accorgersi del plexiglass e della sua fragilità. La circostanza, poi, valorizzata dalla Corte di merito, che accanto al cadavere del C. fosse stato rinvenuto il secchio legato alla fune che doveva essere riempito con il materiale che ostruiva le grondaie era priva di pregio non essendo evidenziata alcuna prova che il secchio fosse stato usato dal C. ed anzi risultando dalle deposizioni dei testi B. e F., elementi di segno contrario. Evidenzia, inoltre, che la Corte non si è espressa sulla violazione da parte del C. dei precisi doveri di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5. In punto quesito chiede alla Corte di legittimità di dichiarare se il processo logico- giuridico della sentenza d'appello di Torino (consistito: – nel ritenere che C.V. potesse e dovesse salir sul tetto ancorchè il programma dei lavori prevedesse che egli restasse a terra ed ancorchè nessuno avesse disposto che egli dovesse salirvi;
– nel ritenere, pur a fronte di elementi di segno contrario, che i lavoratori non erano stati informati dei rischi dei lucernari in plexiglass e della fragilità di detto materiale e che le strisce di plexiglass non erano riconoscibili, che non erano state adottate le misure per evitare il calpestio dei lucernari, che l'infortunato nulla conosceva dei luoghi e delle loro caratteristiche; – nel non considerare che sussistevano camminamenti in cemento noti all'infortunato che consentivano di evitare il plexiglass, che l'infortunato conosceva luoghi e rischi per essere sin dal 1995 rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e per aver collaborato alla stesura del documento di valutazione dei rischi; – nel ritenere che l'infortunato era caduto dal tetto per motivi di lavoro pur a fronte della prova che egli era salito sul tetto per motivi non lavorativi; – nel ritenere che il ritrovamento accanto al cadavere dell'infortunato del secchio e della fune dimostrasse che egli li usava pur in assenza di elementi che ciò provassero ed anzi in presenza di elementi comprovanti che detto secchio era stato usato e calato al suolo dal solo F., in ogni caso avendo pretermesso l'esame delle prove contrastanti e non avendo tenuto conto della violazione dei doveri di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5 da parte dell'infortunato e della colpa di questi), costituisca violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., punto 4.
2. Con il secondo motivo di ricorso la società lamenta violazione, falsa applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 5 e 19 in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5. Deduce che, a fronte delle circostanze evidenziate con il primo motivo di ricorso, la Corte territoriale prima di escludere la colpa di C. V. avrebbe dovuto rapportare stesse al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5 e così in particolare dedurre che il lavoratore aveva contravvenuto al disposto di detta norma atteso che era salito sul tetto in contrasto con il programma di lavoro che prevedeva che egli restasse a terra, era salito sul tetto per un motivo non lavorativo (accordarsi per il pranzo), si era allontanato dal tetto in lamiera e senza plexiglass e dai camminamenti sicuri sul tetto, che conosceva, per avventurarsi di diversi metri dal luogo dei lavori e dell'infiltrazione senza motivo e malgrado l'avvertimento del pericolo da parte del collega F. e ciò pur essendo le strisce di plexiglass ben riconoscibili e ben nota al C., lavoratore preparato ed esperto, la loro fragilità. Sul piano del quesito chiede alla Corte di legittimità se la decisione del giudice territoriale di escludere anche ogni colpa concorrente del C., a fronte delle evidenziate circostanze, costituisca violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 5 e 19. Rileva, in ogni caso, sul punto il vizio di omessa motivazione.
3. Con il terzo motivo di ricorso la società lamenta violazione, falsa applicazione del D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 10-16 e 70, del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 4 e 5 e dell'art. 2087 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5. Deduce che la ritenuta violazione della normativa prevenzionale è in contrasto con le emergenze processuali già evidenziate con il primo e secondo motivo di ricorso. Sul piano del quesito chiede alla Corte di legittimità se la decisione del giudice territoriale di ritenere la responsabilità della V. in ordine all'infortunio occorso al suo dipendente in relazione alla omessa preventiva ricognizione dei luoghi – il tetto – per individuarne i rischi, nel fatto che non furono impartire direttive ed informative sui rischi ai lavoratori in particolare per la presenza dei lucernari sul tetto del capannone, nella mancata adozione di misure in grado di delimitare i lucernari e di evitarne il calpestio, nella mancata fornitura di strumenti protettivi – quali, tra gli altri, posizionamenti di tavole di copertura, sottopalchi e simili – o di protezione individuale – quali cinture di sicurezza od altro -, a fonte delle provate circostanze contrarie costituisca violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 10-16 e 70, del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 4 e 5 e dell'art. 2087 c.c.. Rileva, in ogni caso, sul punto il vizio di omessa motivazione.
4. Con il quarto motivo di ricorso la società lamenta violazione, falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11 in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. Rileva che non vi è alcuna sentenza penale di condanna degli amministratori o di altro lavoratore della V. per l'infortunio di C.V. e che le emergenze processuali depongono sia per l'ascrivibilità dell'infortunio ad esclusiva colpa del lavoratore, in violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 5 e 19 sia per l'insussistenza di violazioni aziendali del D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 10-16 e 70, al D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 4 e 5 e dell'art. 2087 cod. civ. con la conseguenza che mancano i presupposti per l'azione di regresso ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11. Sul piano del quesito chiede alla Corte di legittimità se l'accoglimento da parte del giudice territoriale della domanda di regresso dell'I.N.A.I.L., a fronte delle circostanze che l'infortunio del C. è conseguito a fatto e colpa di quest'ultimo e che non sussistono violazioni della normativa prevenzionale, costituisca violazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11.
5. Con il quinto motivo di ricorso la società lamenta violazione, falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11, dell'art. 1227 c.c., commi 1 e 2 e artt. 2043 – 2056 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5. Deduce che la colpa del lavoratore come risultante dalle circostanze evidenziate al primo e secondo motivo di ricorso doveva valere quale scriminante in favore dell'azienda ovvero in ogni caso rilevare, in concorso con la eventuale colpa datoriale, al fine di riconoscere la fondatezza dell'azione di regresso dell'I.N.A.I.L. solo in misura proporzionale a quest'ultima. Sul piano del quesito chiede alla Corte di legittimità se la decisione del giudice territoriale di escludere anche ogni colpa concorrente del C., a fronte delle evidenziate contrarie circostanze, costituisca violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11, dell'art. 1227 c.c., commi 1 e 2 e artt. 2043 – 2056 cod. civ. Rileva, in ogni caso, sul punto il vizio di omessa motivazione.
6. I motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione sono infondati.
Questa Corte ha già da tempo precisato (cfr. Cass. n. 7328 del 17 aprile 2004, cui adde Cass. n. 7127 del 23 marzo 2007, Cass. n. 19559 del 13 settembre 2006, Cass. n. 5493 del 14 marzo 2006, Cass. n. 4980 del 8 marzo 20
06 e, più recentemente, Cass. n. 9817 del 14 aprile 2008, nonchè Cass. n. 3786 del 17 febbraio 2009, Cass. n. 4656 del 25 febbraio 2011) che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, cosi da porsi come causa esclusiva dell'evento. Il comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti i caratteri estremi sopra indicati, può invece rilevare come concausa dell'infortunio, ed in tal caso la responsabilità del datore di lavoro può essere proporzionalmente ridotta, fermo restando che, allorchè la condotta del lavoratore sia attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro per lo svolgimento di una determinata attività lavorativa, nonostante la sussistenza di condizioni di pericolo per le modalità dell'esecuzione, il comportamento imprudente o negligente del lavoratore assume efficacia soltanto di mera occasione o modalità dell'iter produttivo dell'evento, la cui responsabilità va, dunque ascritta per intero al datore di lavoro.
Questa Corte ha, infatti, già rilevato che il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente – in quanto attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro (o del dirigente preposto che ne faccia le veci) – finisca per configurarsi nell'eziologia dell'evento dannoso come una mera modalità dell'iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perchè “imposta” in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell'ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso (cfr. in tal senso Cass. n. 5024 del 8 aprile 2002; Cass. n. 3213 del 18 febbraio 2004, Cass. n. 1994 del 13 febbraio 2012).
Nel caso in esame, la società ricorrente pretende di dedurre l'avvenuta violazione da parte di C.V. dei doveri di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5, al fine di sostenere l'ascrivibilità dell'infortunio mortale ad esclusiva responsabilità dello stesso, dalle seguenti circostanze: l'essere l'infortunato salito sul tetto ancorchè il programma dei lavori prevedesse che egli restasse a terra ed ancorchè nessuno avesse disposto che egli dovesse salirvi; l'essere stati tutti lavoratori informati dei rischi dei lucernari in plexiglass e della fragilità di detto materiale e l'essere le strisce di plexiglass riconoscibili; l'essere state adottate le misure per evitare il calpestio dei lucernari; l'essere l'infortunato – il quale sin dal 1995 era rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ed aveva collaborato alla stesura del documento di valutazione dei rischi – ben a conoscenza dei luoghi e delle loro caratteristiche ed in particolare a conoscenza dei camminamenti in cemento che consentivano di evitare il plexiglass, l'essere l'infortunato salito sul tetto per motivi non lavorativi, l'essere risultato che il secchio ritrovato era stato usato e calato al suolo dal solo F.. In buona sostanza, ad avviso della ricorrente la caduta da tetto sarebbe stata la conseguenza di una iniziativa del C., non richiestagli dal datore di lavoro che gli aveva affidato il diverso incarico di rimanere a terra e comunque sarebbe riconducibile a colpa del lavoratore il quale, benchè edotto dei rischi dei lucernari in plexiglass e pur in presenza delle misure atte ad evitare il camminamento degli stessi, aveva agito in modo assolutamente improvvido, con la conseguenza che l'infortunio mortale che ne era derivato non poteva essere attribuito a responsabilità del datore di lavoro. Invero la Corte territoriale ha analizzato in maniera adeguata ed esaustiva tutte le risultanze istruttorie ed ha preso adeguatamente in esame, sulla base del contesto in cui si era verificato l'infortunio, oltre alle circostanze indicate in questa sede dalla ricorrente anche altre ritenute pregnanti e così innanzitutto che il C., insieme con il F., era stato adibito ad un compito esorbitante rispetto alle normali mansioni, che, in particolare, l'amministratore della V. si era rivolto alla vittima chiedendogli di “organizzare il lavoro di pulitura delle canaline”. Significativa era stata, dunque, l'esistenza di una disposizione che, in quanto diretta alla soluzione del problema delle infiltrazioni di acqua che si erano verificate sul tetto del magazzino e per l'ampiezza dell'ordine e l'assenza di specificazioni, non poteva non comportare (o comunque non era tale da escludere ragionevolmente) anche una verifica diretta sul tetto del magazzino.
Come evidenziato dalla Corte territoriale, la circostanza che, per un accordo tra i due lavoratori, fosse salito sul tetto in un primo momento il solo F. (il quale già in passato aveva svolto analoga operazione) non attribuisce all'iniziativa di C. V. (che dei due aveva il compito di sovraintendere i lavori) di salire anch'egli sul tetto, le caratteristiche di abnormità ed inopinabilità tali da comportare l'esonero totale del datore di lavoro ovvero, vertendosi nell'ambito di direttive impartite, anche solo una riduzione proporzionale della sua responsabilità. Detta iniziativa, infatti, lungi dal risultare in contrasto con la direttiva ricevuta e, dunque, lungi dall'integrare una violazione del disposto di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5, era riconducibile proprio alla esigenza di trovare la causa dell'infiltrazione e di ottemperare, così, alla disposizione dell'amministratore. La stessa è, allora, da collocarsi, come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale, funzionalmente in relazione al compito affidato al C., irrilevante essendo che quest'ultimo, una volta salito sul tetto e prima di rovinare a terra, abbia valutato di accordarsi con il F. per il pranzo (essendo, peraltro, plausibile che sia stato considerato come inverosimile – e pertanto trascurato – che la vittima, ben potendo colloquiare da terra con il F. anche in ragione dello svuotamento del secchio calato giù dal primo, per tale accordo verbale – e solo per questo – abbia avuto la necessità di salire sul tetto). Del resto, quello che rileva, ai fini della riconducibilità di un comportamento, alle direttive ricevute, è se l'operazione che il lavoratore stava effettuando al momento dell'infortunio, sia stata in qualche modo riferibile alle prevedibili modalità di esecuzione delle sue prestazioni ovvero anche ad attività strumentali altrettanto prevedibili vuoi perchè abituali vuoi perchè rese necessarie da eventuali condizioni oggettive. Ed è tale riconducibilità che ha consentito alla Corte di merito di ritenere che il lavoratore abbia affrontato un rischio inerente all'attività da compiersi senza alcuna deviazione, puramente arbitraria ed animata da finalità personali, dalle normali modalità lavorative. Non vi è stato, dunque, alcun atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive (melius alle disposizioni impartite), diretto alla soddisfazione di impulsi meramente personali, nè può dirsi mancante il nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa.
Egualmente in modo corretto la Corte territoriale ha valutato come irrilevante, rispetto all'affidamento dei suddetti compiti esorbitanti, la circostanza, ampiamente valorizzata dall'odierna ricorrente, che il C. fosse sin dal 1995 rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e per aver collaborato alla stesura del documento di valutazione dei rischi. Tale circostanza, infatti, evidentemente riferita alla ordinaria attività svolta dal C. (addetto al magazzino) e più in generale dall'azienda (esercente attività di commercializzazione di vernici), non è significativa della specifica conoscenza di rischi presenti in contesti esterni ed estranei a quello di espletamento dei compiti ordinari. Il che vale a dire che il ruolo del C. nell'ambito dell'attività propria della V. non esonerava l'amministratore di quest'ultima dall'informare puntualmente detto lavoratore dei rischi specifici ricollegabili alla disposta ed assolutamente contingente attività di pulizia della canaline e così dei rischi di caduta dal tetto, della fragilità dei lucernari nonchè dell'obbligo di utilizzo di strumenti di sicurezza (si richiama, al riguardo, il principio espresso da questa Corte nella sentenza n. 4895 del 14/05/1998:
“Nell'esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, l'accertamento che il datore di lavoro deve compiere per il D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, art. 70 ed ai fini delle idonee conseguenti misure da adottare ai sensi degli artt. 10 e 16 del citato D.P.R. e dell'art. 2087 cod. civ., non è limitato alla resistenza della superficie ove il lavoro si svolge, bensì investe ogni sottostante struttura, nella misura in cui questa condizioni materialmente la predetta resistenza, e nei limiti di diligenza prudenza ed esperienza adeguate a questa attività; il positivo accertamento dell'adempimento di questo obbligo consente di escludere la responsabilità che, negli indicati limiti di colpa, è addebitabile al datore per infortuni causalmente connessi all'esecuzione dei predetti lavori” e nella sentenza n. 9000 del 25/08/1995: “In caso di esecuzione di qualsiasi opera che esponga i lavoratori a rischi di caduta dall'alto, trova applicazione la generale norma di cui al D.P.R. n. 164 del 1956, art. 10, che prescrive l'utilizzazione di cintura di sicurezza debitamente agganciata, e comunque l'art. 2087 cod. civ., che impone l'adozione delle opportune misure antinfortunistiche in caso di situazioni non direttamente contemplate dalla normativa antinfortunistica, ogni volta in cui non sia accertata l'impossibilità di caduta degli operai da qualunque punto del piano di lavoro, per effetto di specifici apprestamenti – collocazione, a seconda dei casi, di tavole sopra le orditure e di sottopalchi – previsti dal D.P.R. n. 164, art. 70 per i lavori da eseguirsi su lucernari, tetti, coperture e simili”).
Per il resto, le affermazioni della ricorrente, secondo cui le argomentazioni della Corte d'appello, anche per quanto attiene alla ritenuta violazione della normativa prevenzionale, sarebbero smentite da ulteriori elementi raccolti nel giudizio penale, dalle deposizioni testimoniali assunte in sede dibattimentale di primo grado, dalla documentazione versata in atti dalla società e finirebbero per trascurare la gravità dell'imprudenza commessa dal lavoratore ovvero per disconoscere il pieno adempimento dei doveri di cautela e/o di informazione da parte del datore di lavoro, si risolvono in realtà nella contestazione diretta (inammissibile in questa sede) del giudizio di merito – giudizio che risulta motivato in modo sufficiente e logico con riferimento tanto alla pericolosità dell'incombenza della cui esecuzione era stato incaricato il lavoratore (essendo, come detto, pur sempre riconducibile nell'ambito della direttiva impartita dall'amministratore la verifica sul tetto da parte del lavoratore incaricato della organizzazione delle operazioni di pulitura delle canaline) ed all'assenza di precise disposizioni sulle modalità con le quali avrebbero dovuto essere eseguite dette operazioni (si ribadisce, del tutto estranee agli ordinari compiti del lavoratore), oltre che alla mancata predisposizione delle cautele necessarie per la sua esecuzione – e rimangono pertanto confinate ad una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla Corte di appello, inidonea a radicare un deducibile vizio di legittimità di quest'ultima. Al riguardo, deve rimarcarsi che la valutazione delle risultanze probatorie e la scelta, tra queste, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la decisione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un'esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti; con la conseguenza che il controllo di legittimità da parte della Corte di cassazione non può riguardare il convincimento del giudice di merito sulla rilevanza probatoria degli elementi considerati, ma solo la sua congruenza dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova, non essendo conferito alla S.C. il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l'apprezzamento dei fatti (cfr. ex plurimis Cass. n. 6288 del 18/03/2011, id. n. 27162 del 23/12/2009 e n. 17477 del 9/08/2007). Ond'è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all'opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi di aver omesso l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacchè nè l'una nè l'altra gli sono richieste, mentre soddisfa l'esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 12520).
Rileva questa Corte che, in aderenza alla suddetta regola di diritto, il giudice del merito ha fatto corretta applicazione della legge e della logica per pervenire all'accertamento dell'esclusiva responsabilità del datore di lavoro. Al riguardo, come detto, la Corte territoriale ha attribuito rilievo prevalente all'esistenza di una disposizione dell'amministratore della società che per quanto ampia e priva di specificazioni (posto che al lavoratore era stato ordinato di “organizzare” l'esecuzione di un lavoro nonostante l'obiettiva anzidetta situazione di pericolosità, senza la predisposizione di cautele e di sicure direttive) oltre a non essere idonea ad integrare un preciso “programma” dei lavori (nei termini prospettati dalla ricorrente) rispetto al quale valutare una eventuale abnorme deviazione, era tale da rendere a questa ricollegabile l'iniziativa del C. di salire sul tetto ed ha, altresì, valutato gli altri elementi invocati dalla società, ritenendoli trascurabili ovvero ininfluenti, per cui la conclusione raggiunta non è censurabile per vizio di motivazione, dato che gli argomenti esposti a sostegno dell'impugnazione sostanzialmente si risolvono nella richiesta a questo giudice di legittimità di riesaminare il materiale probatorio raccolto per farne derivare una conclusione diversa da quella di cui alla sentenza impugnata.
La decisione della Corte territoriale risulta, altresì, rispettosa dei principi di diritto come ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha, come già sopra ricordato, ripetutamente affermato che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente. Nè, si ribadisce, può attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l'esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento (e tale non è il caso in esame nel quale vi è stata una piena riconducibilità del comportamento del lavoratore alla sfera di organizzazione ed alle finalità del lavoro, e, con essa, una piena riconducibilità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere (cfr., da ultimo, Cass. n. 4656 del 25/2/2011 nonchè Cass. n. 1994 del 13/02/2012).
Nè, infine, può attribuirsi rilievo alcuno alla circostanza che non vi è stata alcuna sentenza penale di condanna degli amministratori o di altro lavoratore della V. per l'infortunio di C.V. in quanto, come è noto, “la proponibilità dell'azione di regresso non è condizionata dal previo accertamento in sede penale della responsabilità del datore di lavoro (o di persona del cui operato questi debba civilmente rispondere) e neppure dal previo esame, da parte del giudice penale, del fatto causativo dell'infortunio”, in quanto a tale accertamento può provvedere “incidenter tantum” anche il giudice civile (cfr. in tal senso Cass. n. 10167 del 28/09/1991 nonchè Cass. n. 9601 del 14/07/2001).
Conclusivamente il ricorso va integralmente rigettato.
7. Al rigetto del ricorso segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore dell'I.N.A.I.L., delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 40,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per onorario, oltre accessori di legge.