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I giudici di legittimità si sono da ultimo occupati di un interessante caso di diffamazione, il quale presenta una serie di spunti che ci consentono di approfondire alcuni dei principi fondamentali in materia.

Il fatto. “D.P.P. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Genova C.F.P., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni conseguenti a comportamenti asseritamente diffamatori dal medesimo tenuti.

In particolare, la vicenda traeva origine dalla pubblicazione, avvenuta in data 2 marzo 2000 da parte della Casa editrice L., del libro del C.F. intitolato “Pigiami e camici”; in esso l’autore, già dirigente di primo livello presso l’Istituto (OMISSIS), aveva inserito, sotto il titolo “Tre medici al bar”, il contenuto di un immaginario colloquio tra medici ospedalieri durante il quale uno dei tre lamentava, fra l’altro, che il primario del suo reparto fosse un ex assessore comunale democristiano, del tutto ignorante in fatto di medicina (“non distingue un fegato da un rene”), “presuntuoso come sono spesso i piccoli di statura” e tuttavia appoggiato dal direttore generale (definito “un manager del cavolo”), il quale non era in condizione di percepire come tale primario fosse ignorante e non in grado di dirigere un dipartimento (“Come facciamo a far capire al direttore generale che il nostro A2 è un primario ignorante e che non può diventare A1 e dirigere il dipartimento?”).

Nella medesima data del 2 marzo 2000 era apparsa sul settimanale “L’espresso” un’intervista al medesimo C.F., nel corso della quale egli aveva dichiarato, fra l’altro, che la nomina dei primari ospedalieri da parte dei direttori generali è basata soprattutto sulla convenienza e sulla pressione sindacale e partitica (“Sono molto potenti massoneria, Opus Dei, Comunione e Liberazione”), aggiungendo che “noi abbiamo l’ardire di far diventare direttore di dipartimento un ex assessore comunale che non sa neanche da che parte sia il fegato quando visita un paziente”. Invitato dalla giornalista a fare il nome della persona, il C.F. aveva specificato che “se lo dico mi querela”, richiamando il caso dell’ospedale (OMISSIS) (“dove lavoro”), nel quale “il nostro direttore generale ha dato spazio a Tizio che appartiene alla ex DC”.

Successivamente, era stato pubblicato un altro libro scritto dal C.F., dal titolo “Il Sindaco”, nel quale l’autore, fra l’altro, nel contesto di un altro colloquio immaginario tra medici, aveva inserito la seguente frase: “Ma intanto cosa devo fare io? Vedermi passare davanti tutti i colleghi più deficienti? E magari prendere ordini da loro come pretenderebbe ora di fare il ciellino o quel mezzo nano del pronto soccorso? E’ uno schifo”.

La decisione. Il primo punto affrontato dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 16543/12, ha ad oggetto la tematica relativa alla individuabilità del soggetto offeso (per approfondimenti sul lato oggettivo della diffamazione vedi Diffamazione, fatto notorio e onere della prova).

Parte convenuta, infatti, eccepiva come non fosse mai stato fatto il nome del soggetto presunto diffamato, per cui, essendo impossibile l’individuazione del soggetto, non era configurabile alcuna responsabilità a suo carico.

I giudici di Piazza Cavour, invece, richiamando le argomentazioni già svolte in precedenti giudizi (cfr., ad es., Cass. n. 17180/07), hanno ribadito come costituisca oramai ius receptum il principio di diritto per cui, in materia di diffamazione, non è necessario che il soggetto passivo sia indicato in maniera esplicita, ben potendo essere sufficienti gli elementi della fattispecie concreta, purchè dagli stessi sia possibile desumere, con ragionevole certezza, l’inequivoca individuazione dell’offeso.

Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che “La sentenza impugnata ha evidenziato: 1) che non poteva avere alcuna importanza il fatto che la terminologia (Al e A2) utilizzata nel libro “Pigiami e camici” per identificare i primari non avesse avuto concreta applicazione nell’ambito dell’ospedale (OMISSIS);

2) che il D.P. era considerato “uno dei più accreditati candidati alla nomina a responsabile del DEA (Dipartimento di emergenza e accettazione)”, sicchè il richiamo al “mezzo nano” del pronto soccorso era un ulteriore elemento di identificazione, essendo il diffamato un soggetto piccolo di statura;

3) che, essendo la città di (OMISSIS), nonostante le considerevoli dimensioni, una città “a misura d’uomo”, i dati forniti dal C.F., sia pure in astratto, consentivano un’agevole identificazione del D. P. non solo nell’ambito del personale medico e paramedico dell’ospedale (OMISSIS), ma anche in tutta la collettività locale;

4) che la collocazione professionale del D.P. e la sua “pregressa attività politica” fossero un ulteriore e decisivo elemento di identificazione. Sulla base di tutti questi elementi la Corte genovese ha ritenuto che gli scritti e le dichiarazioni in oggetto non fossero solo la creazione di una sorta di stereotipo astratto, essendo consentita, invece, una “percepibile personalizzazione” delle offese”.

In secondo luogo, ci si è soffermati su un’altra questione decisamente rilevante. Il danneggiante, infatti, criticava la sentenza della Corte d’Appello, in quanto veniva considerato responsabile non solo delle proprie pubblicazioni, bensì anche degli ulteriori articoli comparsi nei giorni successivi e da lui non sottoscritti.

In altre parole, egli non potrebbe rispondere delle pubblicazioni successive, i cui contenuti non potevano in alcun modo essere dallo stesso previsti.

Sul punto, la Cassazione ha sposato la tesi della Corte di gravame, a sua volta conforme all’orientamento prevalente in sede penale, secondo il quale per la configurabilità del delitto di diffamazione è sufficiente il dolo generico.

Pertanto, a parere degli Ermellini “non ha importanza il fatto che “al verificarsi dell’effetto diffamatorio abbia contribuito, amplificandone verosimilmente la portata, l’eco che gli scritti e le parole del C.F. ha avuto su altri organi di stampa”, trattandosi di iniziative che vanno considerate, “sotto il profilo della causalità giuridica, conseguenti alla pubblicazione del libro e dell’intervista, in base al principio per cui causa causae est causa causati”.

L’ultimo punto su cui si è concentrata l’attenzione della Suprema Corte riguarda il tema del risarcimento del danno.

Il danneggiante, infatti, riteneva non doversi alcuna forma di ristoro, in quanto non era stata fornita prova alcuna del pregiudizio subito.

Di diverso avviso, invece, i giudici di legittimità: “La giurisprudenza di questa Corte, sia civile che penale, ha riconosciuto, da un lato, che la prova del danno può essere data con ricorso al notorio e tramite presunzioni (Cass. pen., 28 ottobre 2011, n. 6481, S.) dall’altro, che, una volta dimostrata la lesione della reputazione professionale o personale – la quale va valutata in abstracto, ossia con riferimento al contenuto della reputazione quale si è formata nella coscienza sociale di un determinato momento storico – il danno è in re ipsa, in quanto è costituito dalla diminuzione o privazione di un valore, benchè non patrimoniale, della persona umana (v. sentenze 10 maggio 2001, n. 6507, e 18 settembre 2009, n. 20120)”.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 28 settembre 2012, n. 16543

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.F.P., elettivamente domiciliato in R. presso lo studio dell’avvocato …, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato … giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.P.P., elettivamente domiciliato in R., presso lo studio dell’avvocato …, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato …. giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. … della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 24/11/2006, R.G.N. …;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/07/2012 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;

udito l’Avvocato …;

udito l’Avvocato …;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Libertino Alberto che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. D.P.P. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Genova C.F.P., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni conseguenti a comportamenti asseritamente diffamatori dal medesimo tenuti.

In particolare, la vicenda traeva origine dalla pubblicazione, avvenuta in data 2 marzo 2000 da parte della Casa editrice L., del libro del C.F. intitolato “Pigiami e camici”; in esso l’autore, già dirigente di primo livello presso l’Istituto (OMISSIS), aveva inserito, sotto il titolo “Tre medici al bar”, il contenuto di un immaginario colloquio tra medici ospedalieri durante il quale uno dei tre lamentava, fra l’altro, che il primario del suo reparto fosse un ex assessore comunale democristiano, del tutto ignorante in fatto di medicina (“non distingue un fegato da un rene”), “presuntuoso come sono spesso i piccoli di statura” e tuttavia appoggiato dal direttore generale (definito “un manager del cavolo”), il quale non era in condizione di percepire come tale primario fosse ignorante e non in grado di dirigere un dipartimento (“Come facciamo a far capire al direttore generale che il nostro A2 è un primario ignorante e che non può diventare A1 e dirigere il dipartimento?”).

Nella medesima data del 2 marzo 2000 era apparsa sul settimanale “L’espresso” un’intervista al medesimo C.F., nel corso della quale egli aveva dichiarato, fra l’altro, che la nomina dei primari ospedalieri da parte dei direttori generali è basata soprattutto sulla convenienza e sulla pressione sindacale e partitica (“Sono molto potenti massoneria, Opus Dei, Comunione e Liberazione”), aggiungendo che “noi abbiamo l’ardire di far diventare direttore di dipartimento un ex assessore comunale che non sa neanche da che parte sia il fegato quando visita un paziente”. Invitato dalla giornalista a fare il nome della persona, il C.F. aveva specificato che “se lo dico mi querela”, richiamando il caso dell’ospedale (OMISSIS) (“dove lavoro”), nel quale “il nostro direttore generale ha dato spazio a Tizio che appartiene alla ex DC”.

Successivamente, era stato pubblicato un altro libro scritto dal C.F., dal titolo “Il Sindaco”, nel quale l’autore, fra l’altro, nel contesto di un altro colloquio immaginario tra medici, aveva inserito la seguente frase: “Ma intanto cosa devo fare io? Vedermi passare davanti tutti i colleghi più deficienti? E magari prendere ordini da loro come pretenderebbe ora di fare il ciellino o quel mezzo nano del pronto soccorso? E’ uno schifo”.

A sostegno della domanda, il D.P. allegava di aver rivestito, all’epoca dei fatti, la qualifica funzionale di A2 all’interno dell’ospedale (OMISSIS), di essere stato uno degli aspiranti alla qualifica di A1, di essere investito della qualifica di primario del reparto di pronto soccorso e di essere piccolo di statura (cm 160);

elementi questi che, presi nel loro complesso, consentivano di individuare nella sua persona il soggetto di cui alle affermazioni in precedenza riportate, con conseguente grave lesione del suo onore e della sua reputazione professionale.

Costituitosi il C.F., il Tribunale di Genova, con sentenza del 21 aprile 2004, rigettava la domanda, compensando interamente le spese di giudizio.

2. Avverso la sentenza di primo grado proponevano appello principale il D.P. ed appello incidentale il C.F., quest’ultimo limitatamente alla compensazione delle spese.

La Corte d’appello di Genova, con sentenza del 24 novembre 2006, in totale riforma di quella di primo grado, accoglieva l’appello principale, condannava il C.F. al risarcimento del danno esistenziale e morale in favore del D.P. nella misura complessiva di Euro 60.000,00, rigettava l’appello incidentale e poneva a carico del C.F. le spese di entrambi i gradi di giudizio.

La Corte ligure – dopo aver rammentato che, in base alla giurisprudenza di legittimità, ai fini della individuabilità del soggetto offeso, non è necessario che ne venga indicato espressamente il nome, essendo sufficiente “che l’offeso possa venire identificato per esclusione in via induttiva tra una categoria di persone” – ripercorreva l’intera vicenda, giungendo alla conclusione che le indicazioni fornite dal C.F. rendevano agevole l’individuazione in D.P.P. della persona sulla quale si concentravano tutte le considerazioni negative contenute nei libri e nell’intervista di cui sopra. Nella specie, quindi, non si trattava della creazione di uno “stereotipo”, ossia di un modello negativo privo di ogni collegamento con la realtà, bensì dell’individuazione di una persona divenuta oggetto di “connotazioni di segno pesantemente negativo sia sul piano intellettuale sia sul piano etico”. A tal fine, poi, la sentenza sottolineava anche la “convergenza sinergica” della pubblicazione del libro con il rilascio dell’intervista al menzionato settimanale.

Precisava poi la Corte d’appello che non ha importanza, ai fini della responsabilità civile, l’esistenza di un’effettiva volontà di nuocere, perchè ad integrare l’elemento soggettivo della diffamazione è sufficiente anche il dolo indiretto, nelle sue forme di dolo eventuale e alternativo.

Nella determinazione del danno, infine, il giudice d’appello rigettava tanto la domanda di risarcimento del danno patrimoniale quanto quella di risarcimento del danno biologico, accogliendo invece quella del danno esistenziale e morale.

3. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Genova propone ricorso per cassazione il C.F., con atto notificato il 13 marzo 2007 contenente cinque motivi.

Resiste il D.P. con controricorso.

Le parti hanno presentato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Occorre preliminarmente rilevare che l’odierno resistente formula, nel proprio controricorso, due eccezioni preliminari: la prima riguardante la presunta inammissibilità del ricorso principale in quanto tardivo; la seconda relativa ad un’ulteriore causa di inammissibilità conseguente alla violazione dell’art. 365 c.p.c.

Entrambe tali eccezioni non sono fondate.

La prima si basa sul presupposto che i principi enunciati dalla Corte costituzionale in tema di notifica – secondo i quali la medesima si perfeziona, per il notificante, con la semplice consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (sentenze n. 477 del 2002 e n. 28 del 2004) – non troverebbero applicazione qualora alla notifica provveda direttamente il difensore, secondo il dettato della L. 21 gennaio 1994, n. 53. Pertanto, poiché, nella specie, la sentenza di appello è stata notificata al C.F., nel domicilio eletto, in data 16 gennaio 2007 ed il ricorso è pervenuto al difensore del D. P. in data 17 marzo 2007, il medesimo sarebbe tardivo.

E’ viceversa pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Corte (v. le sentenze 1 aprile 2004, n. 6402, 2 marzo 2009, n. 5024, e 30 luglio 2009, n. 17748) che i principi enunciati dalle note sentenze costituzionali sopra richiamate si applicano anche alle notifiche eseguite personalmente dal difensore, con la sola differenza che alla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario va sostituita quella di spedizione del piego raccomandato. E poichè, nella specie, la spedizione è avvenuta il 13 marzo 2007, il ricorso per cassazione è tempestivo, essendo stata notificata la sentenza d’appello il 16 gennaio 2007.

L’altra eccezione è ugualmente da respingere. Nel ricorso il C.F. ha conferito mandato (a margine) ai difensori Guardascione e Martinetti, indicando specificamente la sentenza da impugnare. La procura speciale è valida, siccome redatta nella prima pagina del ricorso stesso e senza che vi sia alcun dubbio sulla attribuzione dell’atto al ricorrente.

1. Si può, quindi, passare al merito dell’impugnazione.

Col primo motivo di ricorso si lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalla questione relativa alla concreta identificabilità e riconoscibilità del D.P. nel soggetto destinatario delle critiche del C.F.

Dopo aver riportato parte della motivazione della sentenza di rigetto emessa dal giudice di primo grado, il ricorrente ricorda che la Corte d’appello ha errato nella valutazione delle testimonianze e delle prove, pervenendo in tal modo alla conclusione che la vittima delle critiche contenute nel libro e nell’intervista oggetto di causa potesse essere il D.P. Dalle testimonianze, al contrario, sarebbe emerso che la distinzione tra le qualifiche di A1 e A2 non ha mai avuto applicazione nell’ambito dell’ospedale (OMISSIS).

Precisa, in proposito, il C.F. che le sue critiche erano rivolte in astratto ed a soggetti generici ed indeterminati, il che conferma sia l’assenza di dolo da parte sua sia il fatto che il D.P. non poteva ritenersi realmente identificabile come la vittima delle affermazioni lesive dell’onore. E, d’altra parte, la sentenza impugnata non avrebbe dato conto adeguatamente delle ragioni per le quali è pervenuta a diversa conclusione.

2. Col secondo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3), violazione e falsa applicazione dei principi in tema di diffamazione a mezzo stampa (artt. 42, 43, 47, 51 e 595 cod. pen.) nonchè delle norme sulla legittimazione e l’interesse ad agire (artt. 99 e 100 cod. proc. civ.), per avere la Corte d’appello negato che la certa ed inequivocabile individuazione dell’offeso costituisca condizione imprescindibile per l’esistenza del reato di diffamazione.

La Corte d’appello avrebbe, infatti, “del tutto disatteso il consolidato orientamento della giurisprudenza di merito ed anche di legittimità” in base al quale il presupposto della domanda di risarcimento è costituito dall’accertamento, sia pure incidentale, dell’esistenza di un fatto illecito costituente reato; reato che presuppone l’esistenza di una persona fisica “chiaramente individuata e determinata”.

3. I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, non sono fondati.

Il fulcro intorno al quale essi ruotano è costituito dal problema della identificazione – o meglio, della concreta identificabilità – della persona offesa, condizione imprescindibile perchè possa configurarsi il reato di diffamazione e la conseguente responsabilità civile dell’autore. Osserva, al riguardo, il ricorrente che la Corte di merito sarebbe incorsa in violazione di legge e non avrebbe valutato correttamente le prove, ritenendo che il D.P. fosse pacificamente riconoscibile dietro lo “schermo” costituito dalla astrattezza delle considerazioni diffamatorie contenute nei libri pubblicati dal C.F. e nell’intervista rilasciata al settimanale “L’espresso”.

E’ opportuno rammentare, innanzitutto, che la giurisprudenza civile di questa Corte, in piena sintonia con quella penale, ha in tempi recenti enunciato il principio per cui in tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, non è necessario che il soggetto passivo sia precisamente e specificamente nominato, ma la sua individuazione deve avvenire, in assenza di un esplicito e nominativo richiamo, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono, unitamente agli altri elementi che la vicenda offre, essere valutati complessivamente, di guisa che possa desumersi, con ragionevole certezza, l’inequivoca individuazione dell’offeso (sentenza 6 agosto 2007, n. 17180, la quale espressamente richiama la sentenza penale 11 marzo 2005, n. 15643, Scalfari).

Questo principio, al quale va dato seguito nella odierna pronuncia, si inserisce in un cammino giurisprudenziale più vasto – del quale le parti hanno dato conto nei rispettivi atti difensivi – che, soprattutto in sede penale, è pervenuto ad una serie di conclusioni che è opportuno ricordare. E’ stato affermato, in proposito, che nel reato di diffamazione a mezzo stampa l’individuazione della persona offesa deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa, desumibile anche dal contesto in cui è inserita, senza fare ricorso ad intuizioni o congetture (Cass. pen., 24 novembre 1987, n. 3756, Scalfari, Id., 10 maggio 1989, n. 7839, Baccelli, Id., 7 dicembre 1999, n. 2135, Pivato, Id., 5 dicembre 2008, n. 11747, Ferrara, Id., 8 luglio 2008, n. 33442, De Bortoli). Non occorre, quindi, che la persona cui l’offesa è diretta venga nominativamente designata (Cass. pen., 18 gennaio 1993, n. 3900, Pendinelli), essendo sufficiente che l’individuazione sia possibile per esclusione, in via induttiva, tra una categoria di persone, senza che assuma importanza il fatto che l’identificazione venga in concreto compiuta da un ristretto numero di persone (Cass. pen., 7 maggio 1992, n. 8120, Castellarin, Id., 20 dicembre 2010, n. 7410, A.). D’altra parte, l’intento diffamatorio può essere raggiunto anche con mezzi indiretti e mediante subdole allusioni (Cass. pen., 7 febbraio 1991, n. 4384, Giannini).

La sentenza della Corte d’appello di Genova si inserisce in modo coerente in questo quadro giurisprudenziale. Essa ha dato conto, con dovizia di argomenti e con logica ineccepibile, delle ragioni per le quali ha ritenuto concretamente che il D.P. fosse il bersaglio delle frasi diffamatorie riconducibili al C.F. La sentenza impugnata ha evidenziato: 1) che non poteva avere alcuna importanza il fatto che la terminologia (Al e A2) utilizzata nel libro “Pigiami e camici” per identificare i primari non avesse avuto concreta applicazione nell’ambito dell’ospedale (OMISSIS);

2) che il D.P. era considerato “uno dei più accreditati candidati alla nomina a responsabile del DEA (Dipartimento di emergenza e accettazione)”, sicchè il richiamo al “mezzo nano” del pronto soccorso era un ulteriore elemento di identificazione, essendo il diffamato un soggetto piccolo di statura;

3) che, essendo la città di (OMISSIS), nonostante le considerevoli dimensioni, una città “a misura d’uomo”, i dati forniti dal C.F., sia pure in astratto, consentivano un’agevole identificazione del D. P. non solo nell’ambito del personale medico e paramedico dell’ospedale (OMISSIS), ma anche in tutta la collettività locale;

4) che la collocazione professionale del D.P. e la sua “pregressa attività politica” fossero un ulteriore e decisivo elemento di identificazione. Sulla base di tutti questi elementi la Corte genovese ha ritenuto che gli scritti e le dichiarazioni in oggetto non fossero solo la creazione di una sorta di stereotipo astratto, essendo consentita, invece, una “percepibile personalizzazione” delle offese.

A fronte di queste ampie e circostanziate argomentazioni, i primi due motivi di ricorso offrono solo critiche generiche e non condivisibili, per lo più centrate sul problema delle qualifiche professionali A1 e A2 che, nel tessuto logico della sentenza impugnata, assumono un’importanza secondaria. E, d’altra parte, una buona parte delle censure si risolve in una sollecitazione, rivolta a questa Corte, ad una non consentita rivalutazione del materiale probatorio acquisito.

4.1. Col terzo motivo di ricorso si lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalla questione relativa alla possibilità di accertare il preteso carattere diffamatorio dei brani in oggetto sulla base di una lettura congiunta e “ad incastro” degli stessi.

Tenendo conto della diversità dei tempi di diffusione dei libri e di un’intervista rilasciata ad un settimanale, osserva il C. F. che la Corte d’appello non ha motivato perchè la pubblicazione dei due libri in questione dovesse ritenersi preordinata e non casuale, così come non ha dato conto delle ragioni per le quali ha ritenuto di poter fare una lettura congiunta di brani differenti, pubblicati a distanza di tempo l’uno dall’altro.

4.2. Il motivo non è fondato.

La Corte genovese, infatti, pur dichiarando “astrattamente corretto” il principio secondo cui non è ravvisabile il contenuto diffamatorio in una lettura congiunta di più scritti, ha dato conto del perchè ha considerato non applicabile simile regola al caso di specie. La motivazione pone in evidenza, per quanto qui interessa (v. pp. 15- 16), che nell’ipotesi in esame vi era una “convergenza sinergica” tra pubblicazione di un libro rivolto ad una “generalità di lettori non specialisti ma interessati a problemi di costume (e malcostume)” e rilascio di un intervista in pari data ad un settimanale dedito per tradizione storica ad indagare su scandali di vario tipo. In data 2 marzo 2000 – come si è visto – fu pubblicato il libro “Pigiami e camici”; in pari data fu pubblicata l’intervista su “L’espresso” al C.F. e poco tempo dopo, in data 30 marzo e 20 aprile 2000, furono pubblicati articoli, in altre parti d’Italia, nei quali si faceva riferimento al D.P. come primario del reparto di pronto soccorso “tirato in ballo” nell’intervista sopra ricordata.

Si tratta, evidentemente, di una valutazione delle prove congruamente motivata e priva di vizi logici, sulla quale questa Corte non ha motivo di avanzare critiche o riserve. Non assume importanza l’inciso della sentenza secondo cui la citata coincidenza temporale sarebbe “preordinata”; questa valutazione – la quale implica una sorta di “processo alle intenzioni” che non interessa in questa sede – potrebbe anche essere espunta dal testo della motivazione senza che questa ne risultasse insufficiente o contraddittoria. La menzionata coincidenza di tempi di pubblicazione, infatti, dimostra che la lettura data dalla Corte d’appello non è nè arbitraria nè “ad incastro”, ma piuttosto espressione di una legittima scelta valutativa che attiene al merito e che in sede di legittimità non può essere ribaltata.

5.1. Col quarto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3), violazione e falsa applicazione dei principi in tema di diffamazione a mezzo stampa (artt. 42, 43, 47, 51 e 595 cod. pen., della Legge sulla stampa, artt. 11 e 12) nonchè dell’art. 2043 cod. civ., per avere la Corte d’appello imputato al medesimo ricorrente – in quanto ragionevolmente prevedibili secondo la comune esperienza – anche le conseguenze dannose degli ulteriori articoli e pubblicazioni, successivi a quelli del C.F. e non firmati dal medesimo, nei quali si riteneva di poter individuare nel D.P. il destinatario delle critiche oggetto dell’odierno processo.

Secondo il ricorrente, infatti, egli potrebbe essere ritenuto responsabile “solo ed esclusivamente per il contenuto di articoli e pubblicazioni a sua firma”, ma non per altre pubblicazioni successive i cui contenuti egli non poteva in alcun modo prevedere. La Corte di merito avrebbe in tal modo attribuito erroneamente alle pubblicazioni del ricorrente il valore di causa efficiente in relazione ad altri autonomi fatti produttivi di danno.

5.2. Il motivo non è fondato.

La sentenza di appello ha affrontato il problema degli ulteriori scritti – pubblicati su organi di stampa a seguito dell’intervista rilasciata dal C.F. e della pubblicazione del libro “Pigiami e camici” – nel momento in cui si è occupata dell’elemento intenzionale del reato di diffamazione (pp. 16-17). In quella sede i giudici genovesi hanno rilevato, in conformità con la pacifica giurisprudenza di questa Corte, che nel delitto in questione non è necessario il dolo specifico, essendo sufficiente quello generico (Cass., 20 dicembre 2007, n. 26964, e Cass. pen., 11 maggio 1999, n. 7597, Beri Riboli); ed hanno aggiunto che non ha importanza il fatto che “al verificarsi dell’effetto diffamatorio abbia contribuito, amplificandone verosimilmente la portata, l’eco che gli scritti e le parole del C.F. ha avuto su altri organi di stampa”, trattandosi di iniziative che vanno considerate, “sotto il profilo della causalità giuridica, conseguenti alla pubblicazione del libro e dell’intervista, in base al principio per cui causa causae est causa causati”.

Come si vede, perciò, la pronuncia impugnata ha valutato il complesso dell’evento diffamatorio, ritenendo irrilevante, ai fini dell’elemento soggettivo del reato, che ulteriori scritti fossero stati pubblicati a seguito dei fatti oggetto della presente causa.

Non si è trattato, perciò, dell’attribuzione di una responsabilità risarcitoria per fatti altrui, quanto della considerazione di episodi successivi come utili elementi di valutazione per giungere alla prova piena della sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di diffamazione. Nè può essere dimenticato che tali articoli, siccome pubblicati pochi giorni dopo la data del 2 marzo 2000, possono ragionevolmente essere considerati come una sorta di “eco” del comportamento diffamatorio tenuto dal C.F.

6.1. Col quinto motivo di ricorso, infine, si lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalla determinazione dei danni asseritamente lamentati dal D. P.

La Corte d’appello, infatti, ha proceduto alla liquidazione del danno non patrimoniale, suddiviso in danno esistenziale e danno morale, “nonostante l’assenza di prova sulla esistenza di un danno risarcibile”. La giurisprudenza di questa Corte, in proposito, ha affermato in più occasioni che la risarcibilità del danno morale non può considerarsi automatica, anche in presenza dell’accertata illegittimità di una pubblicazione, non potendo ritenersi che la prova del danno sia in re ipsa.

6.2. Anche questo motivo non è fondato.

La giurisprudenza di questa Corte, sia civile che penale, ha riconosciuto, da un lato, che la prova del danno può essere data con ricorso al notorio e tramite presunzioni (Cass. pen., 28 ottobre 2011, n. 6481, Sgarbi) dall’altro, che, una volta dimostrata la lesione della reputazione professionale o personale – la quale va valutata in abstracto, ossia con riferimento al contenuto della reputazione quale si è formata nella coscienza sociale di un determinato momento storico – il danno è in re ipsa, in quanto è costituito dalla diminuzione o privazione di un valore, benchè non patrimoniale, della persona umana (v. sentenze 10 maggio 2001, n. 6507, e 18 settembre 2009, n. 20120).

A questi criteri si è attenuta la sentenza impugnata, sicchè la censura è priva di fondamento.

7. In conclusione, il ricorso è rigettato.

Il ricorrente è condannato alle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 11 luglio 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2012.

L’immagine del post è stata realizzata da Pezibear, rilasciata con licenza cc.

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